Tanto tuonò che piovve. Finalmente il Governo Draghi è una realtà, al di là delle formalità di rito.
Ma chi è Mario Draghi e quali sono le sue idee?
Alla prima domanda è facile rispondere. È nato a Roma nel 1947 (ha quindi 74 anni), ha frequentato il liceo dai gesuiti, si è laureato in economica alla Sapienza nel 1970 con relatore Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato al MTI di Boston con il Premio Nobel Franco Modigliani ed è tornato in Italia come professore di Economia e Politica Monetaria, dal 1975 al 1991, in varie università. Dal 1984 al 1990 è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, dal 1991 al 2001 Direttore Generale del Ministero del Tesoro, dal 2002 al 2005 Managing Director di Goldam Sachs. Dal 2005 al 2011 Governatore della Banca d’Italia. Dal 2011 al 2019 Presidente della Banca Centrale Europea.
Più di così è umanamente impossibile.
È un cattolico, molto british, formale e corretto, con un sorriso tra l’ironico e il timido.
Inoltre Draghi è figlio d’arte. Suo padre lavorava in Banca d’Italia e Romano Prodi ebbe modo di dire: «È nato come banchiere centrale».
Chi volesse saperne di più sulla sua vita può leggere il bello, ma un po’ troppo agiografico, L’enigma Draghi di Marco Cecchini.
Sapere quali siano le sue idee è invece cosa assai più ardua.
Le posizioni di Draghi su molti temi fondamentali sembrano infatti essere molto cambiate nel tempo. Una delle sua frasi preferite, attribuita a Keynes, è: «Se le cose cambiano, io cambio idea. Lei cosa fa, signore?» (When facts change, I change my mind. What do you do, Sir?) (Vedi in Appendice un recente e interessantissimo intervento al Meeting di Rimini del 2020).
Nella sua tesi di laurea, con relatore Federico Caffè (un famoso economista keynesiano), sosteneva che una moneta unica europea sarebbe stata una vera iattura, data le diversità delle economie dei vari stati. Era il 1970, ma certo fu un bizzarro esordio per quello che sarebbe stato il ‘Salvatore dell’Euro’.
Già dai primi anni ‘80 la sua posizione mutò. Da keynesiano puro divenne più incline ad accettare le idee liberiste, allora sempre più in voga. Il suo maestro, Federico Caffè, si senti tradito ma purtroppo scomparve nel 1987 senza dare più traccia di sé e nessuno ne seppe più nulla.
Privato dell’amicizia del grande economista keynesiano, Draghi divenne sempre più sensibile alle idee neo-liberiste, tanto che sarà l’indiscusso protagonista della stagione delle privatizzazioni italiane e della nostra adesione ai trattati di Maastricht.
Per chi non sia addentro alle segrete cose dell’economia essere keynesiano significa, mi si permetta l’estrema approssimazione, che le priorità sono il lavoro e il popolo mentre deficit pubblico e inflazione sono cose secondarie. Per cui la ricetta politica dei keynesiani è ‘fate deficit se serve’. I neo liberisti sostengono invece il contrario, che gli stati non devono emettere moneta, devono comportarsi come un buon padre di famiglia, risparmiando e lasciando i mercati a se stessi. Il controllo dell’inflazione è la priorità assoluta. Quindi ‘austerità a prescindere’.
La carriera di Draghi ai massimi livelli cominciò realmente nel 1991, come direttore generale del Tesoro, nominato da Andreotti. Visse gli anni critici di Mani Pulite, il crollo della Prima Repubblica, stretta in un assalto giudiziario e mediatico.
In quei giorni ‘Là dove si puote ciò che si vuole’ si era deciso che il glorioso dopoguerra italiano era finito. Il muro di Berlino era caduto e adesso si giocava con un mazzo di carte diverso.
Fu così che il nostro Draghi si ritrovò il 2 giugno 1992 ospite sullo yacht della Regina d’Inghilterra in una ristretta compagnia dove si doveva decidere il più gigantesco piano di privatizzazioni mai effettuato nel mondo occidentale, al fine di entrare nella moneta europea e di limitare fortemente la sovranità dello stato italiano. Con il senno di poi è stato un vero disastro per noi poveri mortali ma all’epoca non sembrava così ovvio neppure a noi.
Per i pochi che non lo sanno ancora, su quello yacht c’era anche Beppe Grillo, tanto per chiarire.
Per chi volesse approfondire il pensiero di Draghi di allora in Appendice è riportato il suo discorso del Britannia. Draghi ha il dono della sintesi, grazie a Dio. Chi voglia rendersi conto della storia d’Italia degli ultimi trent’anni troverà i suoi discorsi, qui sotto riportati, davvero utili e chiarificatori. Esemplare è anche un intervento che Draghi fece all’AREL nel 2011 in ricordo del vero inizio del collasso italiano, il divorzio tra tesoro e Banca d’Italia di Andreatta e Ciampi del 1981.
Chiusa la stagione delle liberalizzazioni, Draghi si trasferì in Goldman Sachs dove rimase solo un paio di anni prima di diventare Governatore della Banca d’Italia. Poco tempo, ma indicativo del fatto che Draghi sia culturalmente ‘americano’ più che ‘europeo’, come viene invece erroneamente raccontato dalla stampa di regime. Draghi cioè è espressione della finanza americana più che che di quella europea.
Comunque nel periodo da Governatore le sue posizioni ideologiche non cambiarono. Austerità e rigore, gli imperativi categorici tanto cari, anche allora, alla grande finanza internazionale, rimasero i binari in cui si muoveva il suo operare.
Quando si trasferì a capo della Banca Centrale Europea esordì con una clamorosa lettera al governo Berlusconi, in cui si imponeva all’Italia una politica ‘lacrime e sangue’ pena il mancato appoggio della BCE. La lettera era a doppia firma, Trichet, presidente uscente e Draghi, presidente entrante . Berlusconi nicchiò un poco e fu immediatamente defenestrato e sostituito con il più organico Mario Monti. Alla faccia della supposta ‘democrazia’.
Sembrava quindi che non fosse cambiato nulla: Austerità, rigore, libero mercato e quant’altro.
Ma durante il suo percorso europeo le cose andarono diversamente.
Draghi cominciò a muoversi contro le politiche di austerità neo liberiste il 26 luglio 2012 quando in un convegno a Londra, nella Lancaster House, disse la famosa frase ‘Whatever it takes’ (Qualunque cosa serva) per contrastare la speculazione sull’euro e contro l’Europa.
Che significa, per i non addetti ai lavori?
Significa che la Bce può stampare dal nulla euro in quantità infinita (se non sapete ancora che il denaro si stampa dal nulla, senza alcuna garanzia, potete leggere, ad esempio, Cosimo Massaro. Usurocrazia svelata o Marco Saba, Bankestein, ma la scelta è assai vasta).
Se si permette alla Bce di farlo per gli speculatori è la fine, la partita per loro è perduta. La speculazione contro l’Italia e l’euro finì in men che non si dica e l’euro fu salvo.
Certo questa logica richiamava Keynes, altro che Austerità. Infatti i tedeschi si adontarono non poco, sostenendo (formalmente a ragione) che una decisione così importante non era di competenza della BCE. Ma il nostro Draghi, forte dei suoi appoggi atlantici, proseguì implacabile. Il suo Quantitative Easing (cioè la stampa di denaro senza limiti per sostenere i bilanci degli Stati e dell’Italia in particolare) non fu altro che la stessa cosa che fece, all’epoca, la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti.
Quando Draghi lasciò il suo mandato alla Bce, le sue dichiarazione di stampo keynesiano diventarono addirittura clamorose. Il suo maestro, Federico Caffè, ne sarebbe stato orgoglioso. Deficit, Deficit, Deficit , Popolo e lavoro hanno la precedenza. Potete leggere in Appendice un recente articolo di Draghi sul Financial times, davvero esplosivo. Ne riportiamo alcune frasi per la loro significatività:
‘Livelli del debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie.’
‘La priorità non deve essere solo quella di fornite un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro (!)’.
‘Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero (!!) alle società disposte a slavare posti di lavoro’.
Tali società ‘potrebbero realisticamente restare in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato’ (!!!).
I livelli di debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa’.
‘Di fronte a circostanze impreviste una cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra’.
Ultimamente quindi sembra che Draghi sia diventato un keynesiano puro, favorevole a espandere il deficit dello stato per salvare lavoro e occupazione. Potrebbe anche sorgere il dubbio che Draghi sia un uomo per tutte le stagioni, pronto a cambiare idea a seconda delle circostanze.
Ma in realtà le cose non stanno proprio così.
Crediamo infatti che si tratti di una strategia molto sottile e coerente, facente sempre capo naturalmente alla finanza internazionale, di cui Draghi è indubitamente espressione. Tale strategia si può sintetizzare in una frase di Naom Chomsky in ‘La fabbrica del consenso’:
Problema – Reazione – Soluzione
Significa che per riuscire a raggiungere un obiettivo, magari a molti poco gradito, prima bisogna creare un problema (grosso), aspettare la reazione e, solo dopo, offrire una soluzione, che sembrerà a tutti inevitabile.
Per capire il significato di quanto detto bisogna fare un passo indietro.
Nel maggio 2017, Macron, fino a poco tempo prima un semplice impiegato dei Rothschild, fu eletto Presidente del Francia. Era la prima volta che la finanza globalista si esponeva così tanto perché, per più di tre secoli, aveva preferito governare per interposta persona ( qualcuno pensa che governasse da molto più tempo di tre secoli, come sostiene Paolo Rumor nel suo libro, ‘L’altra Europa’).
La cosa sembrò bizzarra ma nessuno se ne preoccupò più di tanto, anche se, da lì a poco, cominciarono i rumors sul destino di Draghi, destinato a diventare prima Presidente del Consiglio italiano e poi Presidente della nostra Repubblica.
A quel punto non poteva più essere un caso.
Un uomo dei Rothschild a Parigi, un uomo della Goldman Sachs a Roma.
Ma che stava succedendo?
E soprattutto ‘Perché’?
Non tutti sapevano all’epoca che il successore di Draghi alla Bce, Christine Lagarde, sarebbe stata pure lei francese. Inoltre nessuno poteva ancora sapere che sarebbe arrivata la pandemia del Covid-19, che permise di sloggiare Trump dalla Casa Bianca e di sostituirlo con un uomo di paglia della grande finanza (qui sì, secondo la tradizione).
A quel punto le cose cominciarono a chiarirsi: i padroni del mondo non si accontentavano più di un controllo indiretto sugli stati ma avevano bisogno di un controllo diretto.
Certo mancavano ancora la Gran Bretagna, inopinatamente uscita dall’Europa, ma soprattutto una riottosa Germania (in Germania si vota a settembre e vedremo cosa succederà).
Defenestrato Trump, in Russia è immediatamente partito il tentativo di organizzare una rivoluzione colorata contro Putin. Sia che riesca o meno, la Russia avrà di che preoccuparsi nei prossimi mesi e sarà fuori dai giochi in merito a eventuali nuovi equilibri occidentali.
Il cambio della politica secolare adottata dalle nostre ‘Illuminate Elite’ doveva avere una motivazione molto forte per organizzare tutto ciò. Una guerra? Un Grande Reset? Un’altra pandemia mondiale molto più devastante del Covid?
Non pretendiamo di conoscere la risposta ma solo di offrire una plausibile ipotesi di lavoro, peraltro assai nota: la piena realizzazione del ormai secolare Piano Kalergi (per chi voglia saperne di più si veda Matteo Simonetti, Il piano Kalergi oppure R.C. Kalergi, PanEuropa).
Cioè la costruzione di un’Europa molto più forte di quello che è ora, con una sua imposizione fiscale autonoma, un suo Ministero del Tesoro, una vera Banca Centrale prestatore di ultima istanza e, dulcis in fundo, un suo esercito.
È il momento giusto. Fuori la Gran Bretagna, la principale opposizione all’Europa Stato Federale viene dalla Germania. Ma adesso, con Macron, Draghi e la Lagarde, la Germania è in minoranza. La fine della carriera politica della Merkel richiede la nomina di un suo successore che, non dubitiamo, sarà, più o meno, favorevole al Piano o comunque ‘non contrario’. Se il popolo tedesco dovesse votare male si possono sempre usare la macchine Dominion per contare i voti, come è stato fatto in Francia e negli Stati Uniti.
Esattamente un anno fa pubblicammo su questo blog un articolo (2020: sarà l’anno del Grande Giubileo?) che prevedeva una crisi economica drammatica, innescata dal crollo di Wall Street, che avrebbe comportato, un Grande Giubileo, cioè, letteralmente, una generale remissione dei debiti.
La drammatica crisi economica, col senno di poi, è avvenuta ma è stata innescata dal Covid (il crollo di Wall Street comunque è stato solo rimandato, per merito del Covid, che ha imposto una gigantesca iniezione di liquidità nel mondo, ma sarà inevitabile).
L’inaudita crisi economica, è, nella logica di Chomsky, il ‘Problema’.
La ‘Reazione’ a tale enorme ‘Problema’ non può che essere un aumento colossale del debito pubblico, se non vogliamo la guerra civile per le strade. Ma anche l’accettazione da parte della gente di qualunque proposta che possa far uscire dalla emergenza, che prima del Covid non sarebbe stata scontata.
Dobbiamo solo fornire una ‘Soluzione’ che, stante l’enorme, futuro, irredimibile debito statale, è un ‘Giubileo’, cioè un condono dei debiti. Tanto sarebbe stato comunque inevitabile, prima o poi.
Quando abbiamo sentito Draghi esprimersi esattamente in questo modo (vedi articolo del Financial Times in Appendice), abbiamo cominciato a sospettare che le apparenti contraddizioni del suo pensiero non lo fossero affatto.
Se il Governo Draghi si muoverà nella direzione illustrata nell’articolo otterrà l’appoggio entusiastico di tutta la popolazione italiana, che sarà poi disposta ad accettare ogni ulteriore riduzione di sovranità che gli venga proposta.
Un debito del 200% del PIL in tutti gli stati europei non è sostenibile con le attuali regole europee, ma neppure con nessun approccio basato sulla ‘Austerità’.
Ma la ‘Soluzione’ è sotto mano: un’ulteriore cessione di sovranità degli stati stessi.
Un Ministero del Tesoro a Bruxelles, un’Europa fiscale che si faccia carico, tramite una BCE ’draghiana’, della remissione dei debiti e che diventi, finalmente, un vero Stato Federale.
Teoricamente ci sarebbe anche un’altra soluzione, il ritorno agli Stati Nazionali sovrani, ma con Macron in Francia e Draghi in Italia questa soluzione non è ovviamente percorribile. Ecco perché Draghi è il Presidente del Consiglio italiano. Ecco perché Macron è Presidente della Francia. Ecco perché la Germania dovrà farsene una ragione.
Altro che fine dell’Europa e dell’euro.
Per risolvere la crisi, la soluzione è ‘Più Europa’, per citare il profetico nome del partito della Bonino.
Se la nostra tesi fosse vera il pensiero di Draghi diventerebbe perfettamente coerente, in tutte le circonvoluzioni delle sue apparenti contraddizioni.
Al di là degli iperuranici disegni dei nostri Superiori Illuminati, a noi poveri mortali cosa succederà?
Il Piano Kalergi non prevede che la nuova Europa abbia una struttura democratica. Al massimo si può eleggere un parlamentino, privo di ogni potere sostanziale, tanto per mantenere una facciata pseudo democratica.
Ma tanto la democrazia non esiste neppure oggi. Se il popolo sbaglia a votare, arriva, come minimo, un’opportuna comunicazione giudiziaria al Presidente del Consiglio o al Ministro degli Interni e le cose vanno a posto. Per non parlare di anni lontani in cui, se il popolo sbagliava a votare, i Presidenti venivano rapiti e uccisi dalle Brigate Rosse.
Oggi Trump è stato sfrattato con delle elezioni talmente farsesche che, davvero, sarebbe meglio abolirle, se non altro per salvaguardare il comune senso del pudore.
Non prendiamoci in giro, la democrazia non esisteva neanche in passato e a comandare, oggi e domani, saranno sempre gli stessi di ieri.
Se fosse rimasta qualche nostalgia di un passato che non è mai esistito, la figura fatta dai 5 Stelle, con il loro ‘Uno vale Uno’, ha già convinto l’intero paese che per guidare un aeroplano ci vuole Uno che ne sia capace. Perché se quell’Uno non è capace, quell’Uno non vale Zero ma Meno Infinito.
L’aver votato i 5 Stelle è stata la dimostrazione che ‘gli eccessi di democrazia’ sono estremamente pericolosi per tutti, e che se il popolo sbaglia a votare, è meglio che non voti affatto. Il governicchio di Conte, che passerà alla storia come il ‘governo dei banchi a rotelle’, rischia di essere l’ultimo.
La prossima volta vi sarà solo un governatorato di una colonia.
Ed è inutile nasconderci che ce la siamo voluta.
Questo Grande Reset avrà indubbi vantaggi estetici.
Pensate alla bellezza di non vedere più un Procuratore della Repubblica qualunque mandare un avviso di garanzia a un Presidente del Consiglio o a un Ministro degli Interni che gli è antipatico, tra gli applausi di politici e giornalisti nulla pensanti. La magistratura dei Palamara, dei Woodcock e compagnia è finita. Che si provino oggi a inviare un avviso di garanzia a Draghi. Sarebbe proprio divertente vedere ‘come va a finire’.
Pensate alla bellezza di non vedere più giornalisti d‘accatto, magari pagati pure dal servizio pubblico, leggere ignobili veline contro un governo eletto dal popolo, ma minato nelle sue funzioni del complesso mediatico-giudiziario.
Pensate alla bellezza di non vedere più un partitino all’1% fare il bello e il cattivo tempo senza che nessuno sia in grado di contrastarlo.
Oggi, in Italia, forse finalmente, al governo c’è il ‘Potere’, quello vero, quello con la P maiuscola. Provate a mettervi contro e vedrete cosa vi succederà. La ricreazione è finita.
Ma, tolti questi deliziosi vantaggi estetici, quale sarà il nostro destino di poveri mortali?
Se l’ipotesi su delineata fosse vera (cioè se l’obiettivo della crisi sia la creazione di vero stato d’Europa), il nostro futuro potrebbe anche non essere terribile.
Dipende molto dagli equilibri all’interno dell’elite al potere. Esistono infatti al suo interno due fazioni, una ‘cattiva’, per la quale la razza umana attuale è solo una palla al piede e va drasticamente ridotta numericamente, e una ‘buona’ che preferisce lasciarci al nostro destino senza infierire (per saperne di più si legga Gioele Magaldi, La scoperta delle Ur lodge. Magaldi ha sostenuto anche di recente che Draghi si è ‘convertito’ ed è passato tra le file della massoneria progressista).
Draghi dovrebbe far parte della fazione più ‘buona’, o almeno così si dice.
Nel caso prevalesse questa fazione, varato il progetto europeo come ‘Soluzione’ al ‘Problema’, il virus, magicamente, scomparirà, i nostri debiti ci saranno rimessi come noi li rimettiamo ai nostri debitori e tutti saremo più felici.
Certo, senza ostinatamente pretendere una ‘democrazia’ che non solo non è mai esistita ma che, se mai fosse esistita, ci avrebbe portato a ‘cento all’ora’ verso il precipizio.
Appendici.
Discorso di Mario Draghi, al tempo Direttore Generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia il 2 giugno 1992.
“Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici (British Invisibles, sic) per la loro superba ospitalità.
Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, Ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.
Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi.
Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi.
PRIMO: privatizzazioni e bilancio.
La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio (si veda il suo commento alla lettera Ciampi-Abdreatta del 1981 che quel deficit creò. ndr).
Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.
Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento).
Le conseguenze politiche di questa visione sono due.
Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni.
Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.
SECONDO: privatizzazioni e mercati finanziari.
La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati.
L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.
TERZO: privatizzazioni e crescita.
(In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale.
Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.
Le implicazioni di policy sono che:
a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti;
b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie;
c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali.
QUARTO: privatizzazioni e depoliticizzazione.
Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.
A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare?
Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze.
Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility).
Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.
In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico.
Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.
Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.
Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà.
La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.”
Convegno AREL, 15 febbraio 2011. L’autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia
Il 12 febbraio 1981, trenta anni fa, il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrive al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi la lettera che avvia il cosiddetto “divorzio” tra le due istituzioni. La politica monetaria in Italia cambia corso.
Il contesto
All’inizio degli anni Ottanta il quadro macroeconomico internazionale sta rapidamente cambiando. Il secondo shock petrolifero ha causato in tutti i paesi sviluppati una nuova fiammata inflazionistica. I guasti e i pericoli di un’alta inflazione sono tornati all’attenzione delle opinioni pubbliche. Si ravviva il dibattito intorno alla natura e allo status istituzionale delle banche centrali: quanto è importante la loro indipendenza funzionale (instrument independence)? Quanto è importante che esse fissino la stabilità dei prezzi come obiettivo prevalente?
Negli Stati Uniti Paul Volcker, succeduto nel 1979 ad Arthur Burns come chairman del Board of Governors del Sistema della Riserva federale, imprime subito un radicale cambio di rotta alla gestione monetaria, con l’obiettivo esplicito di “taking on inflation”. In tutti i principali paesi avanzati le politiche monetarie si fanno restrittive.
In Italia, l’inflazione supera il 20 per cento nel 1980. Il meccanismo di indicizzazione dei salari ai prezzi, introdotto dall’accordo del 1975 tra Confindustria e sindacati confederali, amplifica a dismisura l’impatto degli shock provenienti dai prezzi internazionali. Gli squilibri di fondo della finanza pubblica accumulati nel decennio precedente continuano ad aggravarsi: il fabbisogno del settore statale raggiunge l’11 percento del prodotto.
Nel nostro paese il concetto di indipendenza della Banca centrale è in quegli anni debole, sfumato. La riflessione degli economisti italiani sul ruolo della moneta, con poche significative eccezioni, è limitata; essa si concentra piuttosto sui temi dello sviluppo,dell’industrializzazione, del conflitto sociale e distributivo. Il governatore Baffi è giunto a dolersi esplicitamente dell’assenza di un chiaro obiettivo di tutela della stabilità dei prezzi che sia affidato alla Banca d’Italia dalla legge, come accade alle banche centrali di altri paesi, in primis la Bundesbank.
Benché goda di riconosciuta autorevolezza, la Banca d’Italia ha in quel tempo scarsa autonomia nel controllo della base monetaria e nella fissazione dei tassi di interesse a breve termine; il contrasto dell’inflazione e la difesa del tasso di cambio ne sono resi difficoltosi; i tassi di interesse reali sono da tempo negativi. In occasione della riforma del mercato dei Bot nel 1975 la Banca si è impegnata ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria. Non solo: il Tesoro può attingere a un’apertura di credito di contocorrente presso la Banca per il 14 per cento delle spese iscritte in bilancio; detiene il potere formale di modificare il tasso di sconto (sia pure su proposta del governatore).
In queste condizioni l’adesione italiana al Sistema monetario europeo, in vigore dal marzo del 1979 e di cui Andreatta è stato uno dei principali propugnatori, rischia di decadere ad “atto velleitario”, per la difficoltà di rendere le politiche economiche interne coerenti con quel vincolo. Un forte riallineamento delle parità centrali nello SME, che avrebbe gettato benzina sul fuoco dell’inflazione, viene sventato nel 1980 grazie a una restrizione monetaria assai controversa nel dibattito pubblico; non può essere evitato nel marzo del 1981.
In Banca d’Italia si fa strada in quegli anni una convinzione, espressa dal governatore Ciampi in un noto passaggio delle Considerazioni Finali lette nel maggio 1981.
La convinzione è che il ritorno a una moneta stabile richieda una “costituzione monetaria”,fondata sui tre pilastri della
i) indipendenza del potere di creare moneta da chi determina laspesa pubblica, di
ii) procedure di spesa rispettose del vincolo di bilancio, di
iii) una dinamica salariale coerente con la stabilità dei prezzi.
Una idea del genere, oggi sedimentata nella cultura economica generale, è coltivata negli anni Settanta solo da pochi economisti. Già alla fine di gennaio 1976, nei giorni concitati di una crisi della lira che porta alla chiusura del mercato italiano dei cambi,durante uno scambio di opinioni con i vertici della Banca d’Italia il Prof. Andreatta esprime il parere che occorra “una ferma dichiarazione di indipendenza della banca centrale dal Tesoro”, in modo che essa sia messa in grado di dichiarare un suo obiettivo di espansione della moneta; di fronte alle drammatiche difficoltà dell’economia italiana, prefigura già allora un’idea che riprenderà da Ministro del Tesoro: che la funzione della Banca d’Italia come banca del Tesoro non debba interferire con quella di regolatore della liquidità monetaria.
Lo scambio di lettere e l’avvio del “divorzio”
Quando Beniamino Andreatta assume la responsabilità del ministero del Tesoro, nell’ottobre 1980, la spirale prezzi-salari è avviata. Va, nelle parole del ministro, “cambiato il regime della politica economica”. Ma il clima politico non è favorevole: la stessa compagine di governo è “ossessionata dall’ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. La decisione di “cambiare regime” non viene pertanto sottoposta al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio per un’approvazione formale; assume la forma di un semplice scambio di lettere fra ministro e governatore; a consentirlo, secondo i legali del ministero, è il fatto che la revisione delle disposizioni date alla Banca d’Italia rientra nella competenza esclusiva del ministro. Con la sua lettera, il ministro chiede il “parere” del governatore sull’ipotesi di una modifica del regime esistente, con l’obiettivo esplicito di porre rimedio all’insufficiente autonomia della Banca nei confronti del Tesoro 6 . Il governatore, nella sua risposta, concorda sulla necessità che la Banca risponda unicamente a obiettivi di politica monetaria nel regolare il finanziamento al Tesoro; prefigura inoltre, per il futuro, l’intenzione della Banca. di procedere alla predisposizione e alla comunicazione al mercato di obiettivi quantitativi di crescita della base monetaria, passo decisivo verso un cambiamento di strategia monetaria.
È divorzio, consensuale.
Il nuovo regime viene avviato nel luglio del 1981. La riforma non è completa: alle aste dei Bot il Tesoro continuerà a fissare un tetto massimo ai rendimenti (il “tasso base”) fino al 1988-89; fino al 1994 la Banca d’Italia continuerà a intervenire discrezionalmente in asta e fino a quell’anno rimarrà anche in essere il finanziamento automatico del Tesoro tramite il conto corrente presso la Banca.
Nonostante questi evidenti limiti, il nuovo regime ha effetti di grande portata. Un test importante giunge alla fine del 1982. Il fabbisogno del Tesoro stenta a trovare copertura sul mercato; occorrerebbe far salire i tassi base, il Tesoro nicchia; la Banca non acquista in asta i titoli di Stato non collocati e costringe il Governo a investire della questione il Parlamento, facendosi approvare un’anticipazione straordinaria della Banca.
Dopo il “divorzio” i tassi di interesse reali tornano stabilmente su livelli, positivi, compatibili con il progressivo rientro dell’inflazione e con la permanenza nello SME; il fabbisogno pubblico viene finanziato pressoché per intero sul mercato senza creazione di base monetaria; inizia da parte della Banca d’Italia la pratica di annunciare obiettivi di espansione della moneta.
La decisione di Andreatta e Ciampi, pur rivestita di panni “tecnici”, ha forti effetti politici di lungo periodo. Il ministro e il governatore ne sono consapevoli. Nelle stesse parole di Andreatta, il divorzio nasce come “congiura aperta” tra i due, nel presupposto che a cose fatte, sia poi troppo costoso tornare indietro.
Una volta compiuto il “fatto”, le reazioni sono ostili. Gli scettici ritengono la misura destinata a vita breve. Sono contrari ampi settori della maggioranza di governo, dell’opposizione, del sistema bancario, tutti timorosi del rialzo dei tassi di interesse reali. Viene agitato lo spettro della deindustrializzazione del Paese. Ma la riconquista dell’autonomia da parte della banca centrale si rivela duratura; permette di riportare la crescita dei prezzi sotto controllo senza soffocare l’apparato industriale, come sarà più avanti rivendicato da Ciampi . Tra il 1980 e il 1987 l’inflazione cade da oltre il 21 per cento a meno del 5; il prodotto interno lordo torna a crescere del 3 per cento l’anno, in media, fra il 1984 e il 1988.
Il “divorzio” apre una stagione di grandi cambiamenti nella gestione degli strumenti di politica monetaria, in direzione di una piena indipendenza funzionale della banca centrale e di un più efficiente funzionamento dei mercati finanziari; vengono tra l’altro abbandonati i controlli amministrativi sul credito. La riduzione dell’inflazione prosegue negli anni Novanta, passaggio essenziale per consentire la nostra tempestiva partecipazione all’Unione Economica e Monetaria in Europa.
Gli effetti del “divorzio” sulla politica di bilancio non sono invece quelli sperati.
Chi si è augurato che un atteggiamento non accomodante della banca centrale nel finanziare con moneta il disavanzo induca comportamenti di spesa più responsabili resta deluso. Manca una modifica radicale delle procedure e delle prassi, elemento essenziale della nuova costituzione monetaria invocata da Ciampi. Dopo dieci anni dal divorzio il fabbisogno annuo del settore statale si colloca ancora tra il 10 e l’11 per cento del Pil; il rapporto tra debito pubblico e prodotto supera il 120 per cento del prodotto nel 1994.
Per un miglioramento sostanziale della finanza pubblica si devono attendere gli anni Novanta e la corsa affannosa a rientrare nei criteri per l’ammissione all’area nell’euro con il primo gruppo di paesi. Come ha sostenuto alla fine degli anni Ottanta Tommaso Padoa-Schioppa, la gestione responsabile della moneta è essenziale, ma da sola non basta a curare tutti i mali di un’economia con la finanza pubblica in disordine; la scelta per la stabilità appartiene alla società nel suo complesso, non alla sola banca centrale.
L’eredità di quegli anni. Le idee che hanno portato alla unificazione monetaria d’Europa, che ne sono oggi il fondamento, si sono affermate in tutti i paesi avanzati all’inizio degli anni Ottanta: indipendenza delle banche centrali, obiettivo di assicurare la stabilità dei prezzi, divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici. Andreatta e Ciampi hanno colto e applicato quelle idee con straordinaria tempestività.
Conviene sempre rammentare quanto a fondo la moneta comune europea abbia piantato il seme della stabilità monetaria nei nostri paesi. La credibilità della politica monetaria, che l’Eurosistema ha ereditato dalle migliori tradizioni delle banche centrali partecipanti, ha rafforzato la resistenza delle economie dei paesi dell’area di fronte a shock avversi.
Durante l’ultima crisi l’ancoraggio delle aspettative d’inflazione nell’area dell’euro ha concesso un ampio spazio di manovra alla politica monetaria, per garantire il funzionamento dei mercati, per sostenere il credito ed evitare il tracollo dell’economia. I tassi di mercato monetario sono scesi su valori senza precedenti, vicini allo zero, sono state adottate misure eccezionali di creazione di liquidità, senza muovere le aspettative di inflazione nel medio-lungo termine. Non si è ripetuto lo stop and go di politica monetaria tipico degli anni Settanta.
La credibilità che abbiamo raggiunto va salvaguardata, mantenendo alta la guardia.
È un insegnamento dell’esperienza degli anni Ottanta anche il principio, irrinunciabile per la costruzione europea, che politiche fiscali sostenibili sono fondamento essenziale di una unione monetaria. A questo intendeva rispondere il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia, si è a volte preferito piegare le regole anziché aggiustare le politiche, annacquando il Patto o violandone lettera e spirito. Molti paesi membri hanno affrontato la crisi globale con livelli già elevati del debito pubblico. I problemi di finanza pubblica avevano origine anche da squilibri strutturali, a cui era stata prestata un’attenzione insufficiente.
Oggi come negli anni Ottanta, la politica monetaria non può essere considerata un rimedio alla irresponsabilità di altre politiche. La costruzione europea deve essere resa ancora più resistente. Le istituzioni europee stanno lavorando nella giusta direzione, sui tre fronti dove i progressi sono più necessari: regole di coordinamento fiscale più stringenti e meno soggette a discrezionalità nell’applicazione; un meccanismo di sorveglianza macroeconomica tra i paesi dell’area che consenta gli interventi strutturali necessari a rimuovere gli squilibri e a promuovere la crescita; meccanismi robusti di gestione delle crisi e di supporto finanziario, nell’ambito di una chiara condizionalità. È possibile, è necessario completare la costruzione europea guardando avanti.
Trenta anni fa, nel nostro paese, Andreatta e Ciampi seppero guardare avanti, e lontano.
[…] e della Goldman Sachs (che Draghi rappresenta anche se molti pensano diversamente sbagliando, qui) potrebbe essere foriera di positivi sviluppi per i cittadini italiani, perché in una grande […]