L’enigma Draghi?

Tanto tuonò che piovve. Finalmente il Governo Draghi è una realtà, al di là delle formalità di rito.
Ma chi è Mario Draghi e quali sono le sue idee?

Alla prima domanda è facile rispondere. È nato a Roma nel 1947 (ha quindi 74 anni), ha frequentato il liceo dai gesuiti, si è laureato in economica alla Sapienza nel 1970 con relatore Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato al MTI di Boston con il Premio Nobel Franco Modigliani ed è tornato in Italia come professore di Economia e Politica Monetaria, dal 1975 al 1991, in varie università. Dal 1984 al 1990 è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, dal 1991 al 2001 Direttore Generale del Ministero del Tesoro, dal 2002 al 2005 Managing Director di Goldam Sachs. Dal 2005 al 2011 Governatore della Banca d’Italia. Dal 2011 al 2019 Presidente della Banca Centrale Europea.
Più di così è umanamente impossibile.
È un cattolico, molto british, formale e corretto, con un sorriso tra l’ironico e il timido.
Inoltre Draghi è figlio d’arte. Suo padre lavorava in Banca d’Italia e Romano Prodi ebbe modo di dire: «È nato come banchiere centrale».
Chi volesse saperne di più sulla sua vita può leggere il bello, ma un po’ troppo agiografico, L’enigma Draghi di Marco Cecchini.

Sapere quali siano le sue idee è invece cosa assai più ardua.
Le posizioni di Draghi su molti temi fondamentali sembrano infatti essere molto cambiate nel tempo. Una delle sua frasi preferite, attribuita a Keynes, è: «Se le cose cambiano, io cambio idea. Lei cosa fa, signore?» (When facts change, I change my mind. What do you do, Sir?) (Vedi in Appendice un recente e interessantissimo intervento al Meeting di Rimini del 2020).
Nella sua tesi di laurea, con relatore Federico Caffè (un famoso economista keynesiano), sosteneva che una moneta unica europea sarebbe stata una vera iattura, data le diversità delle economie dei vari stati. Era il 1970, ma certo fu un bizzarro esordio per quello che sarebbe stato il ‘Salvatore dell’Euro’.
Già dai primi anni ‘80 la sua posizione mutò. Da keynesiano puro divenne più incline ad accettare le idee liberiste, allora sempre più in voga. Il suo maestro, Federico Caffè, si senti tradito ma purtroppo scomparve nel 1987 senza dare più traccia di sé e nessuno ne seppe più nulla.
Privato dell’amicizia del grande economista keynesiano, Draghi divenne sempre più sensibile alle idee neo-liberiste, tanto che sarà l’indiscusso protagonista della stagione delle privatizzazioni italiane e della nostra adesione ai trattati di Maastricht.

Per chi non sia addentro alle segrete cose dell’economia essere keynesiano significa, mi si permetta l’estrema approssimazione, che le priorità sono il lavoro e il popolo mentre deficit pubblico e inflazione sono cose secondarie. Per cui la ricetta politica dei keynesiani è ‘fate deficit se serve’. I neo liberisti sostengono invece il contrario, che gli stati non devono emettere moneta, devono comportarsi come un buon padre di famiglia, risparmiando e lasciando i mercati a se stessi. Il controllo dell’inflazione è la priorità assoluta. Quindi ‘austerità a prescindere’.

La carriera di Draghi ai massimi livelli cominciò realmente nel 1991, come direttore generale del Tesoro, nominato da Andreotti. Visse gli anni critici di Mani Pulite, il crollo della Prima Repubblica, stretta in un assalto giudiziario e mediatico.
In quei giorni ‘Là dove si puote ciò che si vuole’ si era deciso che il glorioso dopoguerra italiano era finito. Il muro di Berlino era caduto e adesso si giocava con un mazzo di carte diverso.
Fu così che il nostro Draghi si ritrovò il 2 giugno 1992 ospite sullo yacht della Regina d’Inghilterra in una ristretta compagnia dove si doveva decidere il più gigantesco piano di privatizzazioni mai effettuato nel mondo occidentale, al fine di entrare nella moneta europea e di limitare fortemente la sovranità dello stato italiano. Con il senno di poi è stato un vero disastro per noi poveri mortali ma all’epoca non sembrava così ovvio neppure a noi.
Per i pochi che non lo sanno ancora, su quello yacht c’era anche Beppe Grillo, tanto per chiarire.

Per chi volesse approfondire il pensiero di Draghi di allora in Appendice è riportato il suo discorso del Britannia. Draghi ha il dono della sintesi, grazie a Dio. Chi voglia rendersi conto della storia d’Italia degli ultimi trent’anni troverà i suoi discorsi, qui sotto riportati, davvero utili e chiarificatori. Esemplare è anche un intervento che Draghi fece all’AREL nel 2011 in ricordo del vero inizio del collasso italiano, il divorzio tra tesoro e Banca d’Italia di Andreatta e Ciampi del 1981.
Chiusa la stagione delle liberalizzazioni, Draghi si trasferì in Goldman Sachs dove rimase solo un paio di anni prima di diventare Governatore della Banca d’Italia. Poco tempo, ma indicativo del fatto che Draghi sia culturalmente ‘americano’ più che ‘europeo’, come viene invece erroneamente raccontato dalla stampa di regime. Draghi cioè è espressione della finanza americana più che che di quella europea.
Comunque nel periodo da Governatore le sue posizioni ideologiche non cambiarono. Austerità e rigore, gli imperativi categorici tanto cari, anche allora, alla grande finanza internazionale, rimasero i binari in cui si muoveva il suo operare.
Quando si trasferì a capo della Banca Centrale Europea esordì con una clamorosa lettera al governo Berlusconi, in cui si imponeva all’Italia una politica ‘lacrime e sangue’ pena il mancato appoggio della BCE. La lettera era a doppia firma, Trichet, presidente uscente e Draghi, presidente entrante . Berlusconi nicchiò un poco e fu immediatamente defenestrato e sostituito con il più organico Mario Monti. Alla faccia della supposta ‘democrazia’.
Sembrava quindi che non fosse cambiato nulla: Austerità, rigore, libero mercato e quant’altro.

Ma durante il suo percorso europeo le cose andarono diversamente.
Draghi cominciò a muoversi contro le politiche di austerità neo liberiste il 26 luglio 2012 quando in un convegno a Londra, nella Lancaster House, disse la famosa frase ‘Whatever it takes’ (Qualunque cosa serva) per contrastare la speculazione sull’euro e contro l’Europa.
Che significa, per i non addetti ai lavori?
Significa che la Bce può stampare dal nulla euro in quantità infinita (se non sapete ancora che il denaro si stampa dal nulla, senza alcuna garanzia, potete leggere, ad esempio, Cosimo Massaro. Usurocrazia svelata o Marco Saba, Bankestein, ma la scelta è assai vasta).
Se si permette alla Bce di farlo per gli speculatori è la fine, la partita per loro è perduta. La speculazione contro l’Italia e l’euro finì in men che non si dica e l’euro fu salvo.
Certo questa logica richiamava Keynes, altro che Austerità. Infatti i tedeschi si adontarono non poco, sostenendo (formalmente a ragione) che una decisione così importante non era di competenza della BCE. Ma il nostro Draghi, forte dei suoi appoggi atlantici, proseguì implacabile. Il suo Quantitative Easing (cioè la stampa di denaro senza limiti per sostenere i bilanci degli Stati e dell’Italia in particolare) non fu altro che la stessa cosa che fece, all’epoca, la Fed, la banca centrale degli Stati Uniti.
Quando Draghi lasciò il suo mandato alla Bce, le sue dichiarazione di stampo keynesiano diventarono addirittura clamorose. Il suo maestro, Federico Caffè, ne sarebbe stato orgoglioso. Deficit, Deficit, Deficit , Popolo e lavoro hanno la precedenza. Potete leggere in Appendice un recente articolo di Draghi sul Financial times, davvero esplosivo. Ne riportiamo alcune frasi per la loro significatività:

Livelli del debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie.’
La priorità non deve essere solo quella di fornite un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro (!)’.
Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero (!!) alle società disposte a slavare posti di lavoro’.
Tali società ‘potrebbero realisticamente restare in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato’ (!!!).
I livelli di debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa’.
Di fronte a circostanze impreviste una cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra’.

Ultimamente quindi sembra che Draghi sia diventato un keynesiano puro, favorevole a espandere il deficit dello stato per salvare lavoro e occupazione. Potrebbe anche sorgere il dubbio che Draghi sia un uomo per tutte le stagioni, pronto a cambiare idea a seconda delle circostanze.

Ma in realtà le cose non stanno proprio così.
Crediamo infatti che si tratti di una strategia molto sottile e coerente, facente sempre capo naturalmente alla finanza internazionale, di cui Draghi è indubitamente espressione. Tale strategia si può sintetizzare in una frase di Naom Chomsky in ‘La fabbrica del consenso’:

Problema – Reazione – Soluzione

Significa che per riuscire a raggiungere un obiettivo, magari a molti poco gradito, prima bisogna creare un problema (grosso), aspettare la reazione e, solo dopo, offrire una soluzione, che sembrerà a tutti inevitabile.

Per capire il significato di quanto detto bisogna fare un passo indietro.
Nel maggio 2017, Macron, fino a poco tempo prima un semplice impiegato dei Rothschild, fu eletto Presidente del Francia. Era la prima volta che la finanza globalista si esponeva così tanto perché, per più di tre secoli, aveva preferito governare per interposta persona ( qualcuno pensa che governasse da molto più tempo di tre secoli, come sostiene Paolo Rumor nel suo libro, L’altra Europa).
La cosa sembrò bizzarra ma nessuno se ne preoccupò più di tanto, anche se, da lì a poco, cominciarono i rumors sul destino di Draghi, destinato a diventare prima Presidente del Consiglio italiano e poi Presidente della nostra Repubblica.
A quel punto non poteva più essere un caso.
Un uomo dei Rothschild a Parigi, un uomo della Goldman Sachs a Roma.
Ma che stava succedendo?
E soprattutto ‘Perché’?
Non tutti sapevano all’epoca che il successore di Draghi alla Bce, Christine Lagarde, sarebbe stata pure lei francese. Inoltre nessuno poteva ancora sapere che sarebbe arrivata la pandemia del Covid-19, che permise di sloggiare Trump dalla Casa Bianca e di sostituirlo con un uomo di paglia della grande finanza (qui sì, secondo la tradizione).

A quel punto le cose cominciarono a chiarirsi: i padroni del mondo non si accontentavano più di un controllo indiretto sugli stati ma avevano bisogno di un controllo diretto.
Certo mancavano ancora la Gran Bretagna, inopinatamente uscita dall’Europa, ma soprattutto una riottosa Germania (in Germania si vota a settembre e vedremo cosa succederà).
Defenestrato Trump, in Russia è immediatamente partito il tentativo di organizzare una rivoluzione colorata contro Putin. Sia che riesca o meno, la Russia avrà di che preoccuparsi nei prossimi mesi e sarà fuori dai giochi in merito a eventuali nuovi equilibri occidentali.
Il cambio della politica secolare adottata dalle nostre ‘Illuminate Elite’ doveva avere una motivazione molto forte per organizzare tutto ciò. Una guerra? Un Grande Reset? Un’altra pandemia mondiale molto più devastante del Covid?

Non pretendiamo di conoscere la risposta ma solo di offrire una plausibile ipotesi di lavoro, peraltro assai nota: la piena realizzazione del ormai secolare Piano Kalergi (per chi voglia saperne di più si veda Matteo Simonetti, Il piano Kalergi oppure R.C. Kalergi, PanEuropa).
Cioè la costruzione di un’Europa molto più forte di quello che è ora, con una sua imposizione fiscale autonoma, un suo Ministero del Tesoro, una vera Banca Centrale prestatore di ultima istanza e, dulcis in fundo, un suo esercito.
È il momento giusto. Fuori la Gran Bretagna, la principale opposizione all’Europa Stato Federale viene dalla Germania. Ma adesso, con Macron, Draghi e la Lagarde, la Germania è in minoranza. La fine della carriera politica della Merkel richiede la nomina di un suo successore che, non dubitiamo, sarà, più o meno, favorevole al Piano o comunque ‘non contrario’. Se il popolo tedesco dovesse votare male si possono sempre usare la macchine Dominion per contare i voti, come è stato fatto in Francia e negli Stati Uniti.
Esattamente un anno fa pubblicammo su questo blog un articolo (2020: sarà l’anno del Grande Giubileo?) che prevedeva una crisi economica drammatica, innescata dal crollo di Wall Street, che avrebbe comportato, un Grande Giubileo, cioè, letteralmente, una generale remissione dei debiti.
La drammatica crisi economica, col senno di poi, è avvenuta ma è stata innescata dal Covid (il crollo di Wall Street comunque è stato solo rimandato, per merito del Covid, che ha imposto una gigantesca iniezione di liquidità nel mondo, ma sarà inevitabile).
L’inaudita crisi economica, è, nella logica di Chomsky, il ‘Problema’.
La ‘Reazione’ a tale enorme ‘Problema’ non può che essere un aumento colossale del debito pubblico, se non vogliamo la guerra civile per le strade. Ma anche l’accettazione da parte della gente di qualunque proposta che possa far uscire dalla emergenza, che prima del Covid non sarebbe stata scontata.
Dobbiamo solo fornire una ‘Soluzione’ che, stante l’enorme, futuro, irredimibile debito statale, è un ‘Giubileo’, cioè un condono dei debiti. Tanto sarebbe stato comunque inevitabile, prima o poi.
Quando abbiamo sentito Draghi esprimersi esattamente in questo modo (vedi articolo del Financial Times in Appendice), abbiamo cominciato a sospettare che le apparenti contraddizioni del suo pensiero non lo fossero affatto.
Se il Governo Draghi si muoverà nella direzione illustrata nell’articolo otterrà l’appoggio entusiastico di tutta la popolazione italiana, che sarà poi disposta ad accettare ogni ulteriore riduzione di sovranità che gli venga proposta.

Un debito del 200% del PIL in tutti gli stati europei non è sostenibile con le attuali regole europee, ma neppure con nessun approccio basato sulla ‘Austerità’.
Ma la ‘Soluzione’ è sotto mano: un’ulteriore cessione di sovranità degli stati stessi.
Un Ministero del Tesoro a Bruxelles, un’Europa fiscale che si faccia carico, tramite una BCE ’draghiana’, della remissione dei debiti e che diventi, finalmente, un vero Stato Federale.

Teoricamente ci sarebbe anche un’altra soluzione, il ritorno agli Stati Nazionali sovrani, ma con Macron in Francia e Draghi in Italia questa soluzione non è ovviamente percorribile. Ecco perché Draghi è il Presidente del Consiglio italiano. Ecco perché Macron è Presidente della Francia. Ecco perché la Germania dovrà farsene una ragione.
Altro che fine dell’Europa e dell’euro.
Per risolvere la crisi, la soluzione è ‘Più Europa’, per citare il profetico nome del partito della Bonino.
Se la nostra tesi fosse vera il pensiero di Draghi diventerebbe perfettamente coerente, in tutte le circonvoluzioni delle sue apparenti contraddizioni.

Al di là degli iperuranici disegni dei nostri Superiori Illuminati, a noi poveri mortali cosa succederà?
Il Piano Kalergi non prevede che la nuova Europa abbia una struttura democratica. Al massimo si può eleggere un parlamentino, privo di ogni potere sostanziale, tanto per mantenere una facciata pseudo democratica.
Ma tanto la democrazia non esiste neppure oggi. Se il popolo sbaglia a votare, arriva, come minimo, un’opportuna comunicazione giudiziaria al Presidente del Consiglio o al Ministro degli Interni e le cose vanno a posto. Per non parlare di anni lontani in cui, se il popolo sbagliava a votare, i Presidenti venivano rapiti e uccisi dalle Brigate Rosse.
Oggi Trump è stato sfrattato con delle elezioni talmente farsesche che, davvero, sarebbe meglio abolirle, se non altro per salvaguardare il comune senso del pudore.
Non prendiamoci in giro, la democrazia non esisteva neanche in passato e a comandare, oggi e domani, saranno sempre gli stessi di ieri.
Se fosse rimasta qualche nostalgia di un passato che non è mai esistito, la figura fatta dai 5 Stelle, con il loro ‘Uno vale Uno’, ha già convinto l’intero paese che per guidare un aeroplano ci vuole Uno che ne sia capace. Perché se quell’Uno non è capace, quell’Uno non vale Zero ma Meno Infinito.
L’aver votato i 5 Stelle è stata la dimostrazione che ‘gli eccessi di democrazia’ sono estremamente pericolosi per tutti, e che se il popolo sbaglia a votare, è meglio che non voti affatto. Il governicchio di Conte, che passerà alla storia come il ‘governo dei banchi a rotelle’, rischia di essere l’ultimo.
La prossima volta vi sarà solo un governatorato di una colonia.
Ed è inutile nasconderci che ce la siamo voluta.

Questo Grande Reset avrà indubbi vantaggi estetici.
Pensate alla bellezza di non vedere più un Procuratore della Repubblica qualunque mandare un avviso di garanzia a un Presidente del Consiglio o a un Ministro degli Interni che gli è antipatico, tra gli applausi di politici e giornalisti nulla pensanti. La magistratura dei Palamara, dei Woodcock e compagnia è finita. Che si provino oggi a inviare un avviso di garanzia a Draghi. Sarebbe proprio divertente vedere ‘come va a finire’.
Pensate alla bellezza di non vedere più giornalisti d‘accatto, magari pagati pure dal servizio pubblico, leggere ignobili veline contro un governo eletto dal popolo, ma minato nelle sue funzioni del complesso mediatico-giudiziario.
Pensate alla bellezza di non vedere più un partitino all’1% fare il bello e il cattivo tempo senza che nessuno sia in grado di contrastarlo.

Oggi, in Italia, forse finalmente, al governo c’è il ‘Potere’, quello vero, quello con la P maiuscola. Provate a mettervi contro e vedrete cosa vi succederà. La ricreazione è finita.

Ma, tolti questi deliziosi vantaggi estetici, quale sarà il nostro destino di poveri mortali?
Se l’ipotesi su delineata fosse vera (cioè se l’obiettivo della crisi sia la creazione di vero stato d’Europa), il nostro futuro potrebbe anche non essere terribile.
Dipende molto dagli equilibri all’interno dell’elite al potere. Esistono infatti al suo interno due fazioni, una ‘cattiva’, per la quale la razza umana attuale è solo una palla al piede e va drasticamente ridotta numericamente, e una ‘buona’ che preferisce lasciarci al nostro destino senza infierire (per saperne di più si legga Gioele Magaldi, La scoperta delle Ur lodge. Magaldi ha sostenuto anche di recente che Draghi si è ‘convertito’ ed è passato tra le file della massoneria progressista).
Draghi dovrebbe far parte della fazione più ‘buona’, o almeno così si dice.
Nel caso prevalesse questa fazione, varato il progetto europeo come ‘Soluzione’ al ‘Problema’, il virus, magicamente, scomparirà, i nostri debiti ci saranno rimessi come noi li rimettiamo ai nostri debitori e tutti saremo più felici.
Certo, senza ostinatamente pretendere una ‘democrazia’ che non solo non è mai esistita ma che, se mai fosse esistita, ci avrebbe portato a ‘cento all’ora’ verso il precipizio.

 

 

 

 

Appendici.

Discorso di Mario Draghi, al tempo Direttore Generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia il 2 giugno 1992.

“Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici (British Invisibles, sic) per la loro superba ospitalità.
Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, Ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.
Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi.
Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi.
PRIMO: privatizzazioni e bilancio.
La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio (si veda il suo commento alla lettera Ciampi-Abdreatta del 1981 che quel deficit creò. ndr).
Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.
Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento).
Le conseguenze politiche di questa visione sono due.
Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni.
Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.
SECONDO: privatizzazioni e mercati finanziari.
La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati.
L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.
TERZO: privatizzazioni e crescita.
(In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale.
Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.
Le implicazioni di policy sono che:
a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti;
b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie;
c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali.
QUARTO: privatizzazioni e depoliticizzazione.
Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.
A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare?
Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze.
Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility).
Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.
In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico.
Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.
Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.
Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà.
La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.”

Convegno AREL, 15 febbraio 2011. L’autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia

Il 12 febbraio 1981, trenta anni fa, il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta scrive al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi la lettera che avvia il cosiddetto “divorzio” tra le due istituzioni. La politica monetaria in Italia cambia corso.
Il contesto
All’inizio degli anni Ottanta il quadro macroeconomico internazionale sta rapidamente cambiando. Il secondo shock petrolifero ha causato in tutti i paesi sviluppati una nuova fiammata inflazionistica. I guasti e i pericoli di un’alta inflazione sono tornati all’attenzione delle opinioni pubbliche. Si ravviva il dibattito intorno alla natura e allo status istituzionale delle banche centrali: quanto è importante la loro indipendenza funzionale (instrument independence)? Quanto è importante che esse fissino la stabilità dei prezzi come obiettivo prevalente?
Negli Stati Uniti Paul Volcker, succeduto nel 1979 ad Arthur Burns come chairman del Board of Governors del Sistema della Riserva federale, imprime subito un radicale cambio di rotta alla gestione monetaria, con l’obiettivo esplicito di “taking on inflation”. In tutti i principali paesi avanzati le politiche monetarie si fanno restrittive.
In Italia, l’inflazione supera il 20 per cento nel 1980. Il meccanismo di indicizzazione dei salari ai prezzi, introdotto dall’accordo del 1975 tra Confindustria e sindacati confederali, amplifica a dismisura l’impatto degli shock provenienti dai prezzi internazionali. Gli squilibri di fondo della finanza pubblica accumulati nel decennio precedente continuano ad aggravarsi: il fabbisogno del settore statale raggiunge l’11 percento del prodotto.
Nel nostro paese il concetto di indipendenza della Banca centrale è in quegli anni debole, sfumato. La riflessione degli economisti italiani sul ruolo della moneta, con poche significative eccezioni, è limitata; essa si concentra piuttosto sui temi dello sviluppo,dell’industrializzazione, del conflitto sociale e distributivo. Il governatore Baffi è giunto a dolersi esplicitamente dell’assenza di un chiaro obiettivo di tutela della stabilità dei prezzi che sia affidato alla Banca d’Italia dalla legge, come accade alle banche centrali di altri paesi, in primis la Bundesbank.
Benché goda di riconosciuta autorevolezza, la Banca d’Italia ha in quel tempo scarsa autonomia nel controllo della base monetaria e nella fissazione dei tassi di interesse a breve termine; il contrasto dell’inflazione e la difesa del tasso di cambio ne sono resi difficoltosi; i tassi di interesse reali sono da tempo negativi. In occasione della riforma del mercato dei Bot nel 1975 la Banca si è impegnata ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria. Non solo: il Tesoro può attingere a un’apertura di credito di contocorrente presso la Banca per il 14 per cento delle spese iscritte in bilancio; detiene il potere formale di modificare il tasso di sconto (sia pure su proposta del governatore).
In queste condizioni l’adesione italiana al Sistema monetario europeo, in vigore dal marzo del 1979 e di cui Andreatta è stato uno dei principali propugnatori, rischia di decadere ad “atto velleitario”, per la difficoltà di rendere le politiche economiche interne coerenti con quel vincolo. Un forte riallineamento delle parità centrali nello SME, che avrebbe gettato benzina sul fuoco dell’inflazione, viene sventato nel 1980 grazie a una restrizione monetaria assai controversa nel dibattito pubblico; non può essere evitato nel marzo del 1981.
In Banca d’Italia si fa strada in quegli anni una convinzione, espressa dal governatore Ciampi in un noto passaggio delle Considerazioni Finali lette nel maggio 1981.
La convinzione è che il ritorno a una moneta stabile richieda una “costituzione monetaria”,fondata sui tre pilastri della
i) indipendenza del potere di creare moneta da chi determina laspesa pubblica, di
ii) procedure di spesa rispettose del vincolo di bilancio, di
iii) una dinamica salariale coerente con la stabilità dei prezzi.
Una idea del genere, oggi sedimentata nella cultura economica generale, è coltivata negli anni Settanta solo da pochi economisti. Già alla fine di gennaio 1976, nei giorni concitati di una crisi della lira che porta alla chiusura del mercato italiano dei cambi,durante uno scambio di opinioni con i vertici della Banca d’Italia il Prof. Andreatta esprime il parere che occorra “una ferma dichiarazione di indipendenza della banca centrale dal Tesoro”, in modo che essa sia messa in grado di dichiarare un suo obiettivo di espansione della moneta; di fronte alle drammatiche difficoltà dell’economia italiana, prefigura già allora un’idea che riprenderà da Ministro del Tesoro: che la funzione della Banca d’Italia come banca del Tesoro non debba interferire con quella di regolatore della liquidità monetaria.
Lo scambio di lettere e l’avvio del “divorzio”
Quando Beniamino Andreatta assume la responsabilità del ministero del Tesoro, nell’ottobre 1980, la spirale prezzi-salari è avviata. Va, nelle parole del ministro, “cambiato il regime della politica economica”. Ma il clima politico non è favorevole: la stessa compagine di governo è “ossessionata dall’ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. La decisione di “cambiare regime” non viene pertanto sottoposta al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio per un’approvazione formale; assume la forma di un semplice scambio di lettere fra ministro e governatore; a consentirlo, secondo i legali del ministero, è il fatto che la revisione delle disposizioni date alla Banca d’Italia rientra nella competenza esclusiva del ministro. Con la sua lettera, il ministro chiede il “parere” del governatore sull’ipotesi di una modifica del regime esistente, con l’obiettivo esplicito di porre rimedio all’insufficiente autonomia della Banca nei confronti del Tesoro 6 . Il governatore, nella sua risposta, concorda sulla necessità che la Banca risponda unicamente a obiettivi di politica monetaria nel regolare il finanziamento al Tesoro; prefigura inoltre, per il futuro, l’intenzione della Banca. di procedere alla predisposizione e alla comunicazione al mercato di obiettivi quantitativi di crescita della base monetaria, passo decisivo verso un cambiamento di strategia monetaria.
È divorzio, consensuale.
Il nuovo regime viene avviato nel luglio del 1981. La riforma non è completa: alle aste dei Bot il Tesoro continuerà a fissare un tetto massimo ai rendimenti (il “tasso base”) fino al 1988-89; fino al 1994 la Banca d’Italia continuerà a intervenire discrezionalmente in asta e fino a quell’anno rimarrà anche in essere il finanziamento automatico del Tesoro tramite il conto corrente presso la Banca.
Nonostante questi evidenti limiti, il nuovo regime ha effetti di grande portata. Un test importante giunge alla fine del 1982. Il fabbisogno del Tesoro stenta a trovare copertura sul mercato; occorrerebbe far salire i tassi base, il Tesoro nicchia; la Banca non acquista in asta i titoli di Stato non collocati e costringe il Governo a investire della questione il Parlamento, facendosi approvare un’anticipazione straordinaria della Banca.
Dopo il “divorzio” i tassi di interesse reali tornano stabilmente su livelli, positivi, compatibili con il progressivo rientro dell’inflazione e con la permanenza nello SME; il fabbisogno pubblico viene finanziato pressoché per intero sul mercato senza creazione di base monetaria; inizia da parte della Banca d’Italia la pratica di annunciare obiettivi di espansione della moneta.
La decisione di Andreatta e Ciampi, pur rivestita di panni “tecnici”, ha forti effetti politici di lungo periodo. Il ministro e il governatore ne sono consapevoli. Nelle stesse parole di Andreatta, il divorzio nasce come “congiura aperta” tra i due, nel presupposto che a cose fatte, sia poi troppo costoso tornare indietro.
Una volta compiuto il “fatto”, le reazioni sono ostili. Gli scettici ritengono la misura destinata a vita breve. Sono contrari ampi settori della maggioranza di governo, dell’opposizione, del sistema bancario, tutti timorosi del rialzo dei tassi di interesse reali. Viene agitato lo spettro della deindustrializzazione del Paese. Ma la riconquista dell’autonomia da parte della banca centrale si rivela duratura; permette di riportare la crescita dei prezzi sotto controllo senza soffocare l’apparato industriale, come sarà più avanti rivendicato da Ciampi . Tra il 1980 e il 1987 l’inflazione cade da oltre il 21 per cento a meno del 5; il prodotto interno lordo torna a crescere del 3 per cento l’anno, in media, fra il 1984 e il 1988.
Il “divorzio” apre una stagione di grandi cambiamenti nella gestione degli strumenti di politica monetaria, in direzione di una piena indipendenza funzionale della banca centrale e di un più efficiente funzionamento dei mercati finanziari; vengono tra l’altro abbandonati i controlli amministrativi sul credito. La riduzione dell’inflazione prosegue negli anni Novanta, passaggio essenziale per consentire la nostra tempestiva partecipazione all’Unione Economica e Monetaria in Europa.
Gli effetti del “divorzio” sulla politica di bilancio non sono invece quelli sperati.
Chi si è augurato che un atteggiamento non accomodante della banca centrale nel finanziare con moneta il disavanzo induca comportamenti di spesa più responsabili resta deluso. Manca una modifica radicale delle procedure e delle prassi, elemento essenziale della nuova costituzione monetaria invocata da Ciampi. Dopo dieci anni dal divorzio il fabbisogno annuo del settore statale si colloca ancora tra il 10 e l’11 per cento del Pil; il rapporto tra debito pubblico e prodotto supera il 120 per cento del prodotto nel 1994.
Per un miglioramento sostanziale della finanza pubblica si devono attendere gli anni Novanta e la corsa affannosa a rientrare nei criteri per l’ammissione all’area nell’euro con il primo gruppo di paesi. Come ha sostenuto alla fine degli anni Ottanta Tommaso Padoa-Schioppa, la gestione responsabile della moneta è essenziale, ma da sola non basta a curare tutti i mali di un’economia con la finanza pubblica in disordine; la scelta per la stabilità appartiene alla società nel suo complesso, non alla sola banca centrale.
L’eredità di quegli anni. Le idee che hanno portato alla unificazione monetaria d’Europa, che ne sono oggi il fondamento, si sono affermate in tutti i paesi avanzati all’inizio degli anni Ottanta: indipendenza delle banche centrali, obiettivo di assicurare la stabilità dei prezzi, divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici. Andreatta e Ciampi hanno colto e applicato quelle idee con straordinaria tempestività.
Conviene sempre rammentare quanto a fondo la moneta comune europea abbia piantato il seme della stabilità monetaria nei nostri paesi. La credibilità della politica monetaria, che l’Eurosistema ha ereditato dalle migliori tradizioni delle banche centrali partecipanti, ha rafforzato la resistenza delle economie dei paesi dell’area di fronte a shock avversi.
Durante l’ultima crisi l’ancoraggio delle aspettative d’inflazione nell’area dell’euro ha concesso un ampio spazio di manovra alla politica monetaria, per garantire il funzionamento dei mercati, per sostenere il credito ed evitare il tracollo dell’economia. I tassi di mercato monetario sono scesi su valori senza precedenti, vicini allo zero, sono state adottate misure eccezionali di creazione di liquidità, senza muovere le aspettative di inflazione nel medio-lungo termine. Non si è ripetuto lo stop and go di politica monetaria tipico degli anni Settanta.
La credibilità che abbiamo raggiunto va salvaguardata, mantenendo alta la guardia.
È un insegnamento dell’esperienza degli anni Ottanta anche il principio, irrinunciabile per la costruzione europea, che politiche fiscali sostenibili sono fondamento essenziale di una unione monetaria. A questo intendeva rispondere il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia, si è a volte preferito piegare le regole anziché aggiustare le politiche, annacquando il Patto o violandone lettera e spirito. Molti paesi membri hanno affrontato la crisi globale con livelli già elevati del debito pubblico. I problemi di finanza pubblica avevano origine anche da squilibri strutturali, a cui era stata prestata un’attenzione insufficiente.
Oggi come negli anni Ottanta, la politica monetaria non può essere considerata un rimedio alla irresponsabilità di altre politiche. La costruzione europea deve essere resa ancora più resistente. Le istituzioni europee stanno lavorando nella giusta direzione, sui tre fronti dove i progressi sono più necessari: regole di coordinamento fiscale più stringenti e meno soggette a discrezionalità nell’applicazione; un meccanismo di sorveglianza macroeconomica tra i paesi dell’area che consenta gli interventi strutturali necessari a rimuovere gli squilibri e a promuovere la crescita; meccanismi robusti di gestione delle crisi e di supporto finanziario, nell’ambito di una chiara condizionalità. È possibile, è necessario completare la costruzione europea guardando avanti.
Trenta anni fa, nel nostro paese, Andreatta e Ciampi seppero guardare avanti, e lontano.

 

Lettera Trichet-Draghi a Berlusconi. Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011

Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un’azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell’area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell’euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.
Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l’esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
2.Il Governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l’assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo.
Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell’amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

Mario Draghi, articolo Financial Times, 25 marzo 2020

La pandemia di coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Molti oggi vivono nella paura della propria vita o in lutto per i propri cari. Le azioni intraprese dai governi per evitare che i nostri sistemi sanitari vengano travolti sono coraggiose e necessarie. Devono essere supportati.
Ma queste azioni comportano anche un costo economico enorme e inevitabile. Mentre molti affrontano una perdita di vite umane, molti altri affrontano una perdita di sostentamento. Giorno dopo giorno, le notizie economiche stanno peggiorando. Le aziende affrontano una perdita di reddito nell’intera economia. Molti stanno già ridimensionando e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.
La sfida che affrontiamo è come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di valori predefiniti che lasciano danni irreversibili. È già chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato (! sic).
È il ruolo corretto dello stato distribuire il proprio bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati l’hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e Germania tra il 6 e il 15% delle spese di guerra in termini reali fu finanziato dalle tasse. In Austria-Ungheria, Russia e Francia, nessuno dei costi continui della guerra furono pagati con le tasse. Ovunque, la base imponibile è stata erosa dai danni di guerra e dalla coscrizione. Oggi è a causa dell’angoscia umana della pandemia e della chiusura.
La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette.
I sussidi per l’occupazione e la disoccupazione e il rinvio delle tasse sono passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. Ciò è essenziale per tutte le imprese per coprire le proprie spese operative durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancora di più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto misure di benvenuto per incanalare la liquidità verso le imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo.
Mentre diversi paesi europei hanno diverse strutture finanziarie e industriali, l’unico modo efficace per entrare immediatamente in ogni falla dell’economia è di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari: mercati obbligazionari, principalmente per grandi società, sistemi bancari e in alcuni paesi anche le poste sistema per tutti gli altri. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici. Le banche in particolare si estendono in tutta l’economia e possono creare denaro istantaneamente consentendo scoperti di conto corrente o aprendo linee di credito.
Le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo stanno diventando un veicolo per le politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli ulteriori scoperti o prestiti. Né la regolamentazione né le regole collaterali dovrebbero ostacolare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci bancari a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo del finanziamento del governo che le emette.
Le aziende, tuttavia, non attingeranno al supporto di liquidità semplicemente perché il credito è economico. In alcuni casi, ad esempio le aziende con un portafoglio ordini, le loro perdite possono essere recuperabili e quindi ripagheranno il debito. In altri settori, probabilmente non sarà così.
Tali società potrebbero essere ancora in grado di assorbire questa crisi per un breve periodo di tempo e aumentare il debito per mantenere il proprio personale al lavoro. Ma le loro perdite accumulate rischiano di compromettere la loro capacità di investire in seguito. E, se l’epidemia di virus e i blocchi associati dovessero durare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito raccolto per mantenere le persone impiegate in quel periodo fosse infine cancellato.
O i governi compensano i mutuatari per le loro spese, o quei mutuatari falliranno e la garanzia sarà resa valida dal governo. Se il rischio morale può essere contenuto, il primo è migliore per l’economia. Il secondo percorso sarà probabilmente meno costoso per il budget. Entrambi i casi porteranno i governi ad assorbire una grande parte della perdita di reddito causata dalla chiusura, se si vogliono proteggere posti di lavoro e capacità.
I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e infine per il credito pubblico. Dobbiamo anche ricordare che, visti i livelli attuali e probabili futuri dei tassi di interesse, un tale aumento del debito pubblico non aumenterà i suoi costi di servizio.
Per alcuni aspetti, l’Europa è ben equipaggiata per affrontare questo straordinario shock. Ha una struttura finanziaria granulare in grado di incanalare i fondi verso ogni parte dell’economia che ne ha bisogno. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta politica rapida. La velocità è assolutamente essenziale per l’efficacia.
Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di nessuno di coloro che ne soffrono. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni ’20 è abbastanza una storia di ammonimento.
La velocità del deterioramento dei bilanci privati ​​- causata da una chiusura economica che è sia inevitabile che desiderabile – deve essere soddisfatta della stessa velocità nello schierare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune.
Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.
Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Discorso di Draghi al Meeting di Rimini 18 agosto 2020.

12 anni fa la crisi finanziaria provocò la più grande distruzione economica mai vista in periodo di pace. Abbiamo poi avuto in Europa una seconda recessione e un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Si sono succedute la crisi dell’euro e la pesante minaccia della depressione e della deflazione. Superammo tutto ciò.
Quando la fiducia tornava a consolidarsi e con essa la ripresa economica, siamo stati colpiti ancor più duramente dall’esplosione della pandemia: essa minaccia non solo l’economia, ma anche il tessuto della nostra società, così come l’abbiamo finora conosciuta; diffonde incertezza, penalizza l’occupazione, paralizza i consumi e gli investimenti.
In questo susseguirsi di crisi i sussidi che vengono ovunque distribuiti sono una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri.
La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione.
Nelle attuali circostanze il pragmatismo è necessario. Non sappiamo quando sarà scoperto un vaccino, né tanto meno come sarà la realtà allora. Le opinioni sono divise: alcuni ritengono che tutto tornerà come prima, altri vedono l’inizio di un profondo cambiamento. Probabilmente la realtà starà nel mezzo: in alcuni settori i cambiamenti non saranno sostanziali; in altri le tecnologie esistenti potranno essere rapidamente adattate. Altri ancora si espanderanno e cresceranno adattandosi alla nuova domanda e ai nuovi comportamenti imposti dalla pandemia. Ma per altri, un ritorno agli stessi livelli operativi che avevano nel periodo prima della pandemia, è improbabile.
Dobbiamo accettare l’inevitabilità del cambiamento con realismo e, almeno finché non sarà trovato un rimedio, dobbiamo adattare i nostri comportamenti e le nostre politiche. Ma non dobbiamo rinnegare i nostri principii. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza a quella provocata dalla pandemia e dal cambiamento. Altrimenti finiremo per essere controllati dall’incertezza invece di esser noi a controllarla. Perderemmo la strada.
Vengono in mente le parole della ‘preghiera per la serenità’ di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore:
Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare,
Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare,
E la saggezza di capire la differenza
Non voglio fare oggi una lezione di politica economica ma darvi un messaggio più di natura etica per affrontare insieme le sfide che ci pone la ricostruzione e insieme affermare i valori e gli obiettivi su cui vogliamo ricostruire le nostre società, le nostre economie in Italia e in Europa.
Nel secondo trimestre del 2020 l’economia si è contratta a un tasso paragonabile a quello registrato dai maggiori Paesi durante la seconda guerra mondiale. La nostra libertà di circolazione, la nostra stessa interazione umana fisica e psicologica sono state sacrificate, interi settori delle nostre economie sono stati chiusi o messi in condizione di non operare. L’aumento drammatico nel numero delle persone private del lavoro che, secondo le prime stime, sarà difficile riassorbire velocemente, la chiusura delle scuole e di altri luoghi di apprendimento hanno interrotto percorsi professionali ed educativi, hanno approfondito le diseguaglianze.
Alla distruzione del capitale fisico che caratterizzò l’evento bellico molti accostano oggi il timore di una distruzione del capitale umano di proporzioni senza precedenti dagli anni del conflitto mondiale.
I governi sono intervenuti con misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito. Il pagamento delle imposte è stato sospeso o differito. Il settore bancario è stato mobilizzato affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie. Il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace.
Aldilà delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni.
Una citazione attribuita a John Maynard Keynes, l’economista più influente del XX secolo ci ricorda “When facts change, I change my mind. What do you do sir?’’
Tutte le risorse disponibili sono state mobilizzate per proteggere i lavoratori e le imprese che costituiscono il tessuto delle nostre economie. Si è evitato che la recessione si trasformasse in una prolungata depressione.
Ma l’emergenza e i provvedimenti da essa giustificati non dureranno per sempre. Ora è il momento della saggezza nella scelta del futuro che vogliamo costruire.
Il fatto che occorra flessibilità e pragmatismo nel governare oggi non può farci dimenticare l’importanza dei principii che ci hanno sin qui accompagnato. Il subitaneo abbandono di ogni schema di riferimento sia nazionale, sia internazionale è fonte di disorientamento. L’erosione di alcuni principii considerati fino ad allora fondamentali, era già iniziata con la grande crisi finanziaria; la giurisdizione del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo che aveva disciplinato le relazioni internazionali fin dalla fine della seconda guerra mondiale venivano messi in discussione dagli stessi Paesi che li avevano disegnati, gli Stati Uniti, o che ne avevano maggiormente beneficiato, la Cina; mai dall’Europa, che attraverso il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione; l’impossibilità di giungere a un accordo mondiale sul clima, con le conseguenze che ciò ha sul riscaldamento globale; e in Europa, alle voci critiche della stessa costruzione europea, si accompagnava un crescente scetticismo, soprattutto dopo la crisi del debito sovrano e dell’euro, nei confronti di alcune regole, ritenute essenziali per il suo funzionamento, concernenti: il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato; regole successivamente sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia.
L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era da tempo evidente. Ma, piuttosto che procedere celermente a una loro correzione, cosa che fu fatta, parzialmente, solo per il settore finanziario, si lasciò, per inerzia, timidezza e interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una protesta contro tutto l’ordine esistente.
Questa incertezza, caratteristica dei percorsi verso nuovi ordinamenti, è stata poi amplificata dalla pandemia. Il distanziamento sociale è una necessità e una responsabilità collettiva. Ma è fondamentalmente innaturale per le nostre società che vivono sullo scambio, sulla comunicazione interpersonale e sulla condivisione. È ancora incerto quando un vaccino sarà disponibile, quando potremo recuperare la normalità delle nostre relazioni. Tutto ciò è profondamente destabilizzante.
Dobbiamo ora pensare a riformare l’esistente senza abbandonare i principi generali che ci hanno guidato in questi anni: l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà; il multilateralismo con l’adesione a un ordine giuridico mondiale. Il futuro non è in una realtà senza più punti di riferimento, che porterebbe, come è successo in passato, si pensi agli anni 70 del secolo scorso, a politiche erratiche e certamente meno efficaci, a minor sicurezza interna ed esterna, a maggiore disoccupazione, ma il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente. Occorre pensarci subito. Ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale, si pensi a  De Gasperi, che nel 1943 scriveva la sua visione della futura democrazia italiana e a tanti altri che in Italia, in Europa, nel mondo immaginavano e preparavano il dopoguerra. La loro riflessione sul futuro iniziò ben prima che la guerra finisse, e produsse nei suoi principi fondamentali l’ordinamento mondiale ed europeo che abbiamo conosciuto. È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede che una riflessione sul loro futuro inizi subito.
Proprio perché oggi la politica economica è più pragmatica e i leader che la dirigono possono usare maggiore discrezionalità, occorre essere molto chiari sugli obiettivi che ci poniamo.
La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi.
Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri, per rafforzare una coesione sociale resa fragile dall’esperienza della pandemia e dalle difficoltà che l’uscita dalla recessione comporterà nei mesi a venire, per costruire un futuro di cui le nostre società oggi intravedono i contorni.
L’obiettivo è impegnativo ma non irraggiungibile se riusciremo a disperdere l’incertezza che oggi aleggia sui nostri Paesi. Stiamo ora assistendo a un rimbalzo nell’attività economica con la riapertura delle nostre economie. Vi sarà un recupero dal crollo del commercio internazionale e dei consumi interni, si pensi che il risparmio delle famiglie nell’area dell’euro è arrivato al 17% dal 13% dello scorso anno. Potrà esservi una ripresa degli investimenti privati e del prodotto interno lordo che nel secondo trimestre del 2020 in qualche Paese era tornato a livelli di metà anni 90. Ma una vera ripresa dei consumi e degli investimenti si avrà solo col dissolversi dell’incertezza che oggi osserviamo e con politiche economiche che siano allo stesso tempo efficaci nell’assicurare il sostegno delle famiglie e delle imprese e credibili, perché sostenibili nel tempo.
Il ritorno alla crescita e la sostenibilità delle politiche economiche sono essenziali per rispondere al cambiamento nei desideri delle nostre società; a cominciare da un sistema sanitario dove l’efficienza si misuri anche nella preparazione alle catastrofi di massa. La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che può essere considerato il più grande disastro sanitario dei nostri tempi. La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati.
Vi è però un settore, essenziale per la crescita e quindi per tutte le trasformazioni che ho appena elencato, dove la visione di lungo periodo deve sposarsi con l’azione immediata: l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani.
Questo è stato sempre vero ma la situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore. La partecipazione alla società del futuro richiederà ai giovani di oggi ancor più grandi capacità di discernimento e di adattamento.
Se guardiamo alle culture e alle nazioni che meglio hanno gestito l’incertezza e la necessità del cambiamento, hanno tutte assegnato all’educazione il ruolo fondamentale nel preparare i giovani a gestire il cambiamento e l’incertezza nei loro percorsi di vita, con saggezza e indipendenza di giudizio.
Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza.
Alcuni giorni prima di lasciare la presidenza della Banca centrale europea lo scorso anno, ho avuto il privilegio di rivolgermi agli studenti e ai professori dell’Università Cattolica a Milano. Lo scopo della mia esposizione in quell’occasione era cercar di descrivere quelle che considero le tre qualità indispensabili a coloro che sono in posizioni di potere: la conoscenza per cui le decisioni sono basate sui fatti, non soltanto sulle convinzioni; il coraggio che richiedono le decisioni specialmente quando non si conoscono con certezza tutte le loro conseguenze, poiché l’inazione ha essa stessa conseguenze e non esonera dalla responsabilità; l’umiltà di capire che il potere che hanno è stato affidato loro non per un uso arbitrario, ma per raggiungere gli obiettivi che il legislatore ha loro assegnato nell’ambito di un preciso mandato.
Riflettevo allora sulle lezioni apprese nel corso della mia carriera: non avrei certo potuto immaginare quanto velocemente e quanto tragicamente i nostri leader sarebbero stati chiamati a mostrare di possedere queste qualità. La situazione di oggi richiede però un impegno speciale: come già osservato, l’emergenza ha richiesto maggiore discrezionalità nella risposta dei governi, che non nei tempi ordinari: maggiore del solito dovrà allora essere la trasparenza delle loro azioni, la spiegazione della loro coerenza con il mandato che hanno ricevuto e con i principi che lo hanno ispirato.
La costruzione del futuro, perché le sue fondazioni non poggino sulla sabbia, non può che vedere coinvolta tutta la società che deve riconoscersi nelle scelte fatte perché non siano in futuro facilmente reversibili.
Trasparenza e condivisione sono sempre state essenziali per la credibilità dell’azione di governo; lo sono specialmente oggi quando la discrezionalità che spesso caratterizza l’emergenza si accompagna a scelte destinate a proiettare i loro effetti negli anni a venire.
Questa affermazione collettiva dei valori che ci tengono insieme, questa visione comune del futuro che vogliamo costruire si deve ritrovare sia a livello nazionale, sia a livello europeo.
La pandemia ha severamente provato la coesione sociale a livello globale e resuscitato tensioni anche tra i Paesi europei.
Da questa crisi l’Europa può uscire rafforzata. L’azione dei governi poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria. Il fondo per la generazione futura (Next Generation EU) arricchisce gli strumenti della politica europea. Il riconoscimento del ruolo che un bilancio europeo può avere nello stabilizzare le nostre economie, l’inizio di emissioni di debito comune, sono importanti e possono diventare il principio di un disegno che porterà a un Ministero del Tesoro comunitario la cui funzione nel conferire stabilità all’area dell’euro è stata affermata da tempo.
Dopo decenni che hanno visto nelle decisioni europee il prevalere della volontà dei governi, il cosiddetto metodo intergovernativo, la Commissione è ritornata al centro dell’azione.
In futuro speriamo che il processo decisionale torni così a essere meno difficile, che rifletta la convinzione, sentita dai più, della necessità di un’Europa forte e stabile, in un mondo che sembra dubitare del sistema di relazioni internazionali che ci ha dato il più lungo periodo di pace della nostra storia.
Ma non dobbiamo dimenticare le circostanze che sono state all’origine di questo passo avanti per l’Europa: la solidarietà che sarebbe dovuta essere spontanea, è stata il frutto di negoziati. Né dobbiamo dimenticare che nell’Europa forte e stabile che tutti vogliamo, la responsabilità si accompagna e dà legittimità alla solidarietà.
Perciò questo passo avanti dovrà essere cementato dalla credibilità delle politiche economiche a livello europeo e nazionale. Allora non si potrà più, come sostenuto da taluni, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei.
Potremo bensì considerare la ricostruzione delle economie europee veramente come un’impresa condivisa da tutti gli europei, un’occasione per disegnare un futuro comune, come abbiamo fatto tante volte in passato.
È nella natura del progetto europeo evolversi gradualmente e prevedibilmente, con la creazione di nuove regole e di nuove istituzioni: l’introduzione dell’euro seguì logicamente la creazione del mercato unico; la condivisione europea di una disciplina dei bilanci nazionali, prima, l’unione bancaria, dopo, furono conseguenze necessarie della moneta unica. La creazione di un bilancio europeo, anch’essa prevedibile nell’evoluzione della nostra architettura istituzionale, un giorno correggerà questo difetto che ancora permane.
Questo è tempo di incertezza, di ansia, ma anche di riflessione, di azione comune. La strada si ritrova certamente e non siamo soli nella sua ricerca.
Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione. Solo allora, con la buona coscienza di chi assolve al proprio compito, potremo ricordare ai più giovani che il miglior modo per ritrovare la direzione del presente è disegnare il tuo futuro.

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