
Il 28 agosto 1900, il contingente di marinai italiani, insieme alle truppe dell’Alleanza delle Otto Nazioni, sfilò pomposamente tra le strade della Città Proibita di Pechino, a riprova del completo controllo della città che sanciva la fine della ‘Rivolta dei Boxer’.
L’Italia che conquistò Pechino, esattamente 120 anni fa? Una fake news?
Proprio no, ma più che di Storia Segreta si tratta di Storia Dimenticata, volutamente. O almeno ‘noi’ abbiamo dimenticato. I cinesi no.
Come si era potuto arrivare a questa stupefacente parata vittoriosa, abbondantemente omaggiata da tutta la stampa italiana e dal grande Gabriele D’Annnunzio, che già vedeva la nostra ‘prora terribile rivolta al dominio del mondo’?
Per capire come sia potuto succedere è necessario fare un passo indietro di alcuni decenni. La Cina del 1800 non era la superpotenza mondiale di oggi, anzi. Per un lungo peridodo sembrò addirittura che il Celeste Impero potesse fare la fine dell’Africa, integralmente sottomessa e colonizzata dalle potenze occidentali.
Era governata dalla dinastia manciù dei Qing (1644-1912). La Manciuria è una regione del nord-est della Cina attuale che però non era di etnia e di lingua cinese. I Manciù parlavano una lingua turco-mongola e scrivevano con un alfabeto fonetico. Era quindi a tutti gli effetti una dinastia straniera rispetto al grosso della popolazione cinese di etnia Han, che parlava sì lingue diverse ma che era accomunata dall’uso della scrittura a ideogrammi. Nonostante la dinastia regnasse su Pechino da quasi 3 secoli, e si fosse quindi molto ‘cinesizzata’, la maggioranza dell’etnia Han tendeva a considerarla ancora ‘straniera’. Questo è un punto generalmente poco considerato ma che ebbe un forte peso negli eventi del XIX secolo.
Gli occidentali cominciarono ad affacciarsi commercialmente in Cina verso l’inizio del 1700 ma i cinesi, a differenza dei vicini giapponesi, ritenevano che i manufatti europei fossero per loro del tutto superflui, tanto che accettavano per il pagamento dei prodotti cinesi solo argento. La mentalità cinese riteneva che il mondo civilizzato finisse ai confini della Cina e che il resto del mondo potesse solo fare atto di sottomissione all’Imperatore. Le esportazioni di manufatti cinesi erano viste solo come gentile concessione verso popoli sottomessi. Di importare beni stranieri non se ne parlava proprio.
Questo atteggiamento in effetti provocò un pesante deflusso di argento dall’Occidente verso la Cina perché la seta, il tè, le porcellane e le ‘cineserie’ erano molto di moda in Occidente con un commercio internazionale pesantemente deficitario. L’unico bene che si riusciva a esportare era l’oppio, che era peraltro vietato in Cina fin dal 1729. L’Inghilterra per riequilibrare la sua bilancia dei pagamenti, produceva in India, soprattutto nel Bengala, grandi quantità di oppio per il mercato cinese. Nonostante la proibizione, l’oppio era molto consumato anche dalle elite cinesi e ben presto la situazione si invertì e l’argento tornò a rifluire verso Occidente perché anche l’oppio era venduto in cambio di argento. Gli imperatori Qing si opposero fortemente alle importazioni di oppio tanto che nel 1839 il commissario imperiale Lin a Canton sequestrò e distrusse 1300 tonnellate di oppio britannico. In risposta l’Inghilterra dichiarò guerra alla Cina. Cominciarono le famose ‘guerre dell’oppio’.
Si capì immediatamente che i secoli di isolamento della Cina l’avevano confinata in una situazione di arretratezza tecnica preoccupante. I suoi eserciti erano numericamente superiori ai britannici ed erano armati con cannoni e fucili ma la marina cinese era formata da giunche di legno. È facile immaginarie l’effetto di uno scontro con le poderose cannoniere di sua Maestà: più che di battaglie navali si trattava di massacri.
Nel 1842 era tutto finito. La ‘diplomazia delle cannoniere’, come venne chiamata, aveva vinto e i Qing furono costretti a firmare il trattato di Nanchino che concedeva all’Inghilterra l’uso dei porti di Canton e Shanghai, il libero commercio dell’oppio e la proprietà di Hong Kong. Fu il primo di quelli che i cinesi chiamano ‘Trattati ineguali’. Infatti da lì a poco Francia e Stati Uniti estorsero trattati analoghi seguiti a ruota da altri paesi occidentali e da Russia e Giappone.

Per quella parte di etnia Han che aveva sempre mal digerito la supremazia Manciù sembrava il momento buono. Nel 1851 scoppiò nell’antica capitale Nanchino una rivolta colossale (la rivolta di Taiping) al comando di un vero e proprio profeta: Hong Xiuquan, che creò una religione sincretista tra taoismo e cristianesimo (detta degli ‘Adoratori di Dio’). Si proclamò fratello minore di Gesù Cristo e rimase a capo del suo impero con capitale Nanchino, che chiamò ‘Celeste Regno della Grande Pace – Taiping Tianguo’, fino al 1864. La Cina insomma rischiò di diventare cristiana anche se con una fede molto sui generis. In sintesi Hong sosteneva che l’antico dio cinese Shang Di era lo stesso dio dei cristiani ma che era stato spodestato dal confucianesimo imperiale delle corrotte e diaboliche dinastie straniere.
A livello pratico proibì la poligamia, il concubinaggio, la prostituzione, il divorzio, abolì la schiavitù, e la tortura e creò un regime ‘comunista’, come si pensava fossero le prime comunità cristiane, dove commercio e proprietà privata non esistevano più. E, anche lui, proibì il consumo di oppio. La cosa gli fu fatale. Francia e Inghilterra, che all’inizio avevano visto con favore il movimento Taiping in funzione anti imperiale, gli preferirono alla fine la corrotta dinastia Qing.
Nel 1854, forte anche della ribellione di Hong, Inghilterra, Francia e Stati Uniti avevano avanzato ulteriori richieste ai Qing: l’accesso a tutti i fiumi cinesi e l’apertura di un’ambasciata a Pechino. Il rifiuto scatenò una seconda guerra dell’oppio che finì nel 1860 quando Francia e Inghilterra conquistarono Pechino e fecero incendiare il Palazzo d’estate. I Qing, disperati e in fuga, firmarono qualunque cosa fosse loro proposta, anche che tutti i documenti ufficiali cinesi dovessero obbligatoriamente essere scritti in inglese!
In cambio però ottennero l’appoggiò occidentale contro Hong. Nel 1864 Nanchino capitolò dopo sei mesi di assedio. Hong fu trovato cadavere, forse suicida.
Gli Occidentali, ottenuto quello che volevano e cioè la penetrazione commerciale, si placarono per alcuni decenni ma entrarono in scena i giapponesi, che i cinesi consideravano solo una banda di pirati. Il Giappone aveva iniziato una modernizzazione forzata, nota come Rinnovamento Meiji, nel 1866 che in pochissimi anni portò la nazione ai livelli occidentali. In soli 3 decenni il Giappone si dotò di navi, cannoni e mitragliatrici analoghe a quelle occidentali. Nel 1894 si sentì pronto e invase la Corea, che era uno stato vassallo di Pechino. La Cina inviò un contingente militare in soccorso che fu massacrato. La superiorità bellica giapponese era schiacciante. Nel luglio 1894 i giapponesi entrarono a Seul, a settembre avevano conquistato l’intera Corea, a ottobre dilagarono in Manciuria e nel Liaoning. Nel marzo 1985 presero Taiwan. Era finita: ad aprile la Cina capitolò e firmò la pace, cedendo al Giappone il possesso della Corea, di una parte del Liaoning e di Taiwan.
Gli occidentali e i russi, timorosi dell’espansione giapponese, si affrettarono a suddividere la restante parte dell’impero Manciù in aree di influenza. I russi in particolare occuparono la Manciuria, il che darà origine alla successiva guerra russo-giapponese (1904-5).
Gli italiani, come al solito, arrivavano in ritardo anche se fin dal 1866 avevano firmato un trattato di amicizia con la Cina che permetteva il commercio e la navigazione. Alle soglie del 1900, l’Italia era comunque uno degli 11 paesi che aveva una rappresentanza a Pechino nel quartiere delle ‘Legazioni’, che raccoglieva le ambasciate e varie attività commerciali e finanziarie. Le nazioni rappresentate che avevano residenti a Pechino erano Regno Unito, Francia, Germania, Giappone, Russia, Italia, Spagna, Austria, Belgio, Paesi Bassi e Stati Uniti con circa un migliaio di persone complessive, di cui poco meno di 100 italiane. Simili enclavi straniere a fini commerciali erano presenti anche in altre città cinesi come a Tientsin, lo sbocco al mare di Pechino, oltreché a Shanghai e a Canton.
A causa dei disastrosi decenni della seconda metà del 1800, che avevano visto l’umiliazione della Cina di fronte ai barbari stranieri e la perdita di legittimità della dinastia Qing, si sviluppò un movimento nazionalista in difesa delle tradizioni all’interno delle scuole di Kung Fu. Gli occidentali non avevano un termine per definire le arti marziali e li chiamarono semplicemente boxers, pugili.
Il movimento era del tutto indipendente dagli imperatori manciù e dallo stato cinese e si configurò come una rivolta spontanea proveniente dal basso che iniziò nello Shangdong ma si diffuse a macchia di leopardo in modo fulmineo.
I boxer erano per lo più figure mitiche ed invisibili, che si favoleggiava essere invulnerabili alle pallottole occidentali, e gli scontri si presentavano come una spontanea rivolta di piazza a volte supportate dallo sconclusionato esercito cinese, diviso in molti tronconi autonomi. In realtà erano coordinati da diverse società segrete cinesi (la più importante era quella per Pugno della Concordia e della Giustizia), infiltrate anche ai piani alti dell’esercito regolare, che agli occidentali sembravano una cosa unica ma che in realtà erano abbastanza disomogenee. Le accomunava l’odio per gli occidentali e per i cristiani in particolare, ma anche per gli ingegneri che costruivano ferrovie che erano viste come le teste di ponte di una invasione straniera. Si parlò all’epoca di circa 20.000 morti cristiani cinesi solo tra il 1899 ed il 1900. Nel 1900 i boxer (o meglio i loro uomini perché i veri boxer erano rari) a Pechino erano sempre più minacciosi. Gli occidentali si rivolsero all’Imperatrice vedova Cixi affinché li mettesse fuorilegge ma trovarono un muro di gomma.
A metà anno il quartiere delle Legazioni era in grande difficoltà. Arrivò quindi immediatamente (1 giugno) un contingente di 436 marinai proveniente dalle navi al largo dei forti di Taku (il porto di Pechino e Tientsin a poco più di 100 km di distanza). Si trattava di 75 russi, 75 inglesi, 75 francesi, 60 statunitensi, 50 tedeschi, 41 italiani, 30 giapponesi e 30 austriaci, un sodalizio che fu poi chiamato ‘Alleanza delle 8 nazioni’.
I 41 marinai italiani provenivano dall’incrociatore Elba, di stanza a Taku, agli ordini del tenente di vascello Paolini e del sottotenente Olivieri.
Il 5 giugno, 11 dei marinai italiani, al comando di Olivieri, furono inviati alla difesa della cattedrale cattolica con annessa missione e convento di suore (fuori dal quartiere delle Legazioni a 5 km di distanza) dove si erano rifugiati 3500 cristiani cinesi, che si aggiungevano a un contingente di 30 marinai francesi.

La corte cinese della vecchia imperatrice Cixi tentennava perché alcune delle società segrete dei boxer avevano una forte componente antimanciù ma il 10 giugno decise di appoggiare i boxer e ritirò le truppe dell’esercito cinese da Pechino, lasciando mano libera alla folla. Cominciò qui l’assedio alle Legazioni (10 giugno – 15 agosto 1900): i 55 giorni di Pechino. Oltre a 900 occidentali nel quartiere c’erano anche 2800 cinesi cristiani. Altri 3500 si erano rifugiati nella cattedrale. Con tutte le cautela del caso, è da vedere il colossal hollywoodiano di Nicholas Ray del 1963, 55 giorni a Pechino, con Chalton Heston, Ava Gardner e David Niven.
L’11 giugno fu ucciso il cancelliere Sugiyama della Legazione giapponese, il 13 giugno gli uomini dei boxer entrarono a Pechino in massa dando alle fiamme parecchie chiese massacrando centinaia di convertiti e assalirono la Legazione austriaca. Le mitragliatrici austro-ungariche respinsero però efficacemente la folla inferocita.
Il 20 giugno l’imperatrice Cixi dichiarò guerra a tutte e 11 le nazioni straniere presenti a Pechino. Immediatamente fu incendiata la sede estiva della Legazione britannica e furono tagliate le linee telegrafiche. Il 20 giugno stesso fu ucciso da un soldato dell’esercito imperiale il plenipotenziario tedesco, il barone Klemens von Ketteler. Il 21 giugno fu portato il primo attacco concordato tra l’esercito imperiale e la folla dei boxer alle Legazioni che resistettero strenuamente. Le Legazioni erano isolate e potevano contare solo sulle proprie forze. Non avevano nessun contatto con l’esterno e non sapevano che dal porto di Taku, a più di cento chilometri di distanza, si stavano, febbrilmente ma poco efficacemente, organizzando i soccorsi. Essi arrivarono infatti solo il 14 agosto, ben 55 giorni dopo la dichiarazione di guerra.
Nel frattempo la cattedrale di Petang e l’adiacente missione, circa un km quadrato circondato da alto recinto, resisteva, forte solo di 42 marinai, 30 francesi e 12 italiani. Il 16 giugno respinsero l’assalto di 200 cinesi male armati. Ma presto iniziarono gli attacchi con le mine. Munizioni e soprattutto viveri scarseggiavano perché la cattedrale ospitava ben 3500 cristiani cinesi.
Il 12 agosto quattro marinai italiani furono uccisi dallo scoppio di una mina insieme a più di cento cinesi cristiani. Il sottotenente Olivieri rimase ferito ma si salvò per miracolo. All’alba del 14 agosto rimanevano solo 50 cartucce e i viveri erano finiti. Gli assediati erano rassegnati al peggio, dato che non avevano mai avuto nessun contatto con l’esterno. ma la sera stessa gli Alleati entrarono a Pechino e due giorni dopo, il 16 agosto, fu liberata anche la cattedrale.
Dei 12 marinai italiani sei erano morti (3 di loro ricevettero la Medaglia d’Argento al Valor Militare) e 5 feriti. Dei 30 francesi 5 erano morti e 17 feriti. Solo un italiano e 8 francesi erano ancora in grado di reggersi in piedi.
Se la difesa delle Legazioni e della Cattedrale raggiunse picchi eroici non altrettanto si poté dire sul fronte degli aiuti, che arrivarono in ritardo e male.
Già il 10 giugno l’ammiraglio britannico Seymour disponeva di 2128 marinai delle 8 nazioni (915 britannici, 512 tedeschi, 312 russi, 15 francesi, 111 statunitensi, 54 giapponesi, 26 austriaci più 41 italiani) per partire alla volta di Pechino e di Tientsin (che aveva una analogo del quartiere delle Legazioni sotto assedio) provenienti da una quarantina di navi.
Era arrivata una sola nave italiana, oltre all’Elba, il cacciatorpediniere Calabria, che contribuì con 41 italiani al corpo di spedizione di Seymour, al comando del tenente di vascello Sirianni. Tientsin, a soli 20 km dalla costa fu raggiunta facilmente. Una ventina di italiani, comandati dal sottotenente Ermanno Carlotto, si fermarono a Tientsin e il resto prosegui per Pechino, con Sirianni a comando del nostro piccolo contingente insieme a circa 2000 uomini delle 8 nazioni.
L’intrapresa ebbe assai poca fortuna. Gli attacchi cinesi e vari incidenti la fermarono a una sessantina di chilometri da Pechino. Il 14 giugno una pattuglia italiana fu sopraffatta da uomini dei Boxer e 5 marinai furono uccisi. Il sottocapo Vincenzo Rossi fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare mentre 3 degli altri marinai deceduti con la Medaglia d’argento. I cinesi si ritirarono lasciando sul campo un centinaio di morti.
A quel punto l’ammiraglio britannico, preso atto della difficoltà di raggiungere Pechino, diede ordine di iniziare un’ignominiosa ritirata. Addirittura il 23 giugno, si asserragliò in un arsenale in attesa di rinforzi da Tientsin. Le cose per gli assediati di Pechino si mettevano davvero male.
Nel porto di Taku l’Alleanza decise il 16 giugno di conquistare i forti cinesi a difesa della baia per garantire gli sbarchi, cosa che fu fatta in giornata. Alla missione contribuirono altri 25 marinai italiani, sempre provenienti dalla nave Calabria, al comando del tenente di vascello Giambattista Tanca. All’unità italiana di Tanca fu assegnata la guardia del forte nord.
Nel frattempo a Tientsin si erano acquartierati 2400 marinai (di cui facevano parte i 20 uomini di Carlotto) con quasi 1600 russi arrivati nel frattempo. Il 17 giugno (ancora prima della dichiarazione di guerra dell’imperatrice Cixi) apparve l’esercito imperiale che bombardò il quartiere occidentale di Tientsin, preparando l’assalto di una folla di 10.000 uomini dei boxer. In occasione dell’assalto Carlotto rimase ferito e morì pochi giorni dopo (gli fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria).
A fine giugno quindi la situazione occidentale in Cina appariva molto critica: 900 occidentali, più i cinesi cristiani, assediati a Pechino, la colonna Seymour di 2000 uomini asserragliata da qualche parte tra Pechino e Tsiensin, Il contigente di Tsiensin di 2400 uomini bloccato da un assalto misto imperiale-Boxer. Solo il porto di Taku era saldamente in mano alle 8 nazioni, in attesa di rinforzi. Se sul mare non c’era mai stata gara tra le navi occidentali e quelle cinesi evidentemente sulla terraferma le cose non erano così semplici. I cinesi avevano eserciti molto numerosi, fucili, cannoni e mine in abbondanza (in fondo la polvere da sparo l’avevano inventata loro) e stavano sfruttando l’effetto sorpresa.
Cosa salvò l’Occidente dalla disfatta?
La risposta può essere una sola: i governatori delle province cinesi meridionali non si mossero.
Alla dichiarazione di guerra dell’Imperatrice vedova Cixi i tre governatori delle province meridionali Li Hung Chang, Chang Chih Tung, Liu Kun I, a cui si aggiunse il governatore dello Shangdong, Yuan Shih Kai, valutarono che il modo migliore di ‘unirsi per difendere i territori’ come intimava loro la dichiarazione di guerra di Cixi, fosse quello di restare del tutto inattivi.
Fu una manna dal cielo per l’Alleanza delle 8 Nazioni che poté circoscrivere la guerra con la Cina solo nei 150 km tra il porto di Taku e Pechino.
Il resto della Cina, di etnia Han, non aveva mosso un dito per difendere la loro imperatrice e i boxer. La guerra non toccò affatto Canton, Hong Kong, Shangai, Nanchino che rimasero intatte.
Impero e dinastia Qing finirono formalmente solo nel 1912 ma era chiaro che il controllo del paese era sfuggito loro di mano.
Incassata la non belligeranza dei cinesi meridionali, l’Alleanza cominciò a far confluire rinforzi al porto di Taku, principalmente inglesi e indiani da Hong Kong e poi russi e giapponesi. Dall’Europa si sarebbe dovuto attendere ancora del tempo per l’ovvia distanza.
Tientsin venne liberata il 16 luglio e solo allora fu possibile proseguire per salvare la colonna Seymour, prima di raggiungere Pechino. Ma solo il 4 agosto l’armata alleata, al comando del generale britannico Alfred Gaselee, uscì da Tientsin alla volta di Pechino. Era composta da 18.000 uomini (4000 russi, 8000 giapponesi, 3000 britannici soprattuto indiani, 800 francesi, pochi statunitensi, tedeschi, austriaci e nessun italiano).
Questa volta non ci fu storia. Il 5 agosto, liberata la sfortunata colonna Seymour ancora asserragliata all’arsenale di Siku, sconfissero l’esercito manciuriano e, il 14 agosto, entrarono a Pechino. La battaglia di Pechino durò un paio di giorni, compresa la liberazione dei 3500 cinesi assediati nella cattedrale.
Il 15 agosto l’imperatrice vedova Cixi, vestita da contadina, riuscì a fuggire verso ovest.

Il 28 agosto, esattamente 120 anni fa, completate le operazioni e consolidate le difese, l’Alleanza delle 8 Nazioni, sfilò orgogliosamente per le strade della Città Proibita per proclamare il loro completo controllo della città.
Ai pochi marinai italiani superstiti, che tanto coraggiosamente avevano combattuto nelle drammatiche ore degli assedi, si era aggiunto un contingente di 200 marinai della nave Fieramosca, arrivati da Taku giusto in tempo per partecipare alla sfilata e che non avevano sparato un solo colpo.
Ma la guerra non era finita, l’imperatrice era in fuga e la Cina dei Qing e dei boxer aveva osato sfidare il mondo intero. Doveva essere punita secondo le parole che il Kaiser Guglielmo II pronunciò alla partenza da Brema dei rinforzi tedeschi il 27 luglio 1900, infuriato per l’uccisione del barone Ketteler: «Nessuna grazia, nessun prigioniero. Mille anni fa, la potenza degli Unni di Attila è entrata nella Storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre alla Cina, per mille anni, il nome ‘tedesco’, di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco».
Qui iniziò tutta un’altra ‘guerra’, della quale però ci sarà ben poco di cui vantarsi (continua).
Per saperne di più:
I testi seri sull’argomento sono rari. Sul web di trovano abbastanza articoli ma spesso fuorvianti. Lo stesso Wikipedia fa molta confusione.
Un buon libro è quello di Victor Purcell. La rivolta dei Boxer. Rizzoli. 1972.
Interessante ma romanzato Pierre Loti. Gli ultimi giorni di Pechino. 2002.
Sulla enigmatica figura dell’imperatrice Cixi: Jung Chang. L’imperatrice Cixi. 2017.
Sul carismatico profeta Hong Xiuquan e la rivolta dei Taiping l’unico libro in italiano di cui sono a conoscenza è: Li Gui. Tra i ribelli di Taiping. 2015, un libro di memorie scritto da un prigioniero a cui era stata sterminata la famiglia proprio dai Taiping.
Vi è anche un romanzo di Salgari: Emilio Salgari. Il sotterraneo della morte. La rivolta dei Boxer. 2014.
Ma forse il più interessante di tutti è il libro di Raffaele Barba. Il Tenente Modugno. 2016 che racconta la vera storia di un tenente che fece parte della spedizione italiana e che, in seguito, fu accusato di uxoricidio. Durante il suo processo emersero le verità della missione italiana a Pechino. Un libro di cronaca, vera e documentata, che tiene incollato il lettore come fosse un romanzo d’autore. Imperdibile.
Bello il colossal hollywoodiano di Nicholas Ray del 1963, 55 giorni a Pechino, con Chalton Heston, Ava Gardner e David Niven.