Il 30 giugno 1908, diciassette minuti dopo la mezzanotte ora di Greenwich, il cielo di Londra si illuminò a giorno. Una luce diffusa persistette fino all’alba in molte regioni del Nord Europa e in alcune città si sarebbe potuto leggere tranquillamente il giornale in piena notte. Il Mare del Nord rimase luminescente per diverse settimane a seguire. Cosa era successo?
Ci vollero molti giorni per capire che, in una remota regione della Siberia centrale, si era verificata un’esplosione di potenza inaudita e di causa sconosciuta.
La località, che prende il nome dal fiume Tunguska Pietrosa, era completamente deserta per cui non vi furono vittime, nonostante l’enormità dell’evento.
Furono distrutti circa 80 milioni di alberi su una superficie di 2150 kmq, una zona grande, più o meno, una volta e mezzo la provincia di Milano.
Si pensò subito alla caduta di un meteorite e molti scienziati cominciarono ad arrovellarsi preoccupati su quale probabilità ci fosse che meteoriti così grandi colpissero la Terra. Alcuni sostennero che esplosioni del genere potessero verificarsi una volta su 300 anni, altri (la Nasa) solo una volta su molte migliaia di anni. Certo che, se fosse stata colpita un’area abitata, un’esplosione come quella di Tunguska avrebbe potuto provocare più di un milione di morti.
Per molti anni non si seppe nulla di più, fino a che, nel 1927, il mineralogo russo Leonid Kulik cominciò a indagare sul fenomeno e a cercare il cratere di impatto del meteorite. Dal 1927 al 1939 organizzò ben 4 spedizioni, riuscendo a filmare la zona interessata anche da un dirigibile Graf Zeppelin e a constatare che, a decenni di

distanza, la foresta era ancora completamente distrutta (vedi foto).
Ma del supposto cratere non trovò traccia.
E qui cominciò il mistero.
È pur vero che la maggior parte dei meteoriti, almeno quelli più piccoli, vaporizzano prima di toccare il suolo e quindi non lasciano crateri. Essi arrivano in contatto con l’atmosfera terrestre con una velocità di circa 10-15 km al secondo e si trasformano nelle ‘stelle cadenti’.
Ma le stime sulla potenza dell’esplosione di Tunguska (da 10 a 30 Megatoni, un migliaio di volte la potenza della bomba di Hiroshima) erano troppo grandi per pensare a un meteorite relativamente piccolo. Per sviluppare una potenza del genere, esso avrebbe dovuto avere un diametro di almeno 50-100 metri.
E un ‘sasso’ così grande non farebbe in tempo a vaporizzarsi nel brevissimo tempo di attraversamento dell’atmosfera, dell’ordine di uno-due secondi, e avrebbe lasciato un cratere enorme.

I meteoriti ‘grandi’ sono destinati a raggiungere il terreno e a formare un cratere, come quelli che si possono vedere sulla Luna ma che si possono vedere anche sulla Terra in zone desertiche.
Il Meteor Crater in Arizona (foto) largo 1,5 chilometri, è un esempio di cosa ga potuto fare un meteorite di una ventina di metri di diametro, caduto sulla Terra 50.000 anni fa.
In sostanza senza cratere, non poteva trattarsi di un meteorite.
Ma se non era un meteorite cos’era?
Nel 1930 un astronomo britannico fece l’ipotesi che si fosse trattato di una cometa. Le comete infatti sono composte da ghiaccio e polvere e si può ipotizzare che vaporizzino molto più velocemente dei meteoriti sassosi, senza lasciare tracce o crateri. Ma le comete, tipicamente, si dissolvono a decine o centinaia di chilometri dalla Terra e non riescono ad arrivare compatte in prossimità della superficie.
Modelli dell’esplosione basati sulla direzione di caduta degli alberi messi a punto negli anni ‘50, invece, stavano a indicare che l’esplosione doveva essere avvenuta in aria, a circa 8 chilometri di altezza. Infatti gli alberi sotto l’epicentro erano sì bruciati ma erano rimasti in piedi mentre quelli più lontani erano stati abbattuti circolarmente.
Anche l’ipotesi della cometa non risultava quindi per niente convincente.
Le numerose incongruenze delle ipotesi ‘spaziali’ condussero l’astrofisico Wolfang Kundt a supporre quindi che l’esplosione potesse essere dovuta a un flusso di metano improvvisamente fuoriuscito da una frattura della crosta terreste. L’ipotesi geofisica potrebbe anche avere un suo fondamento perché i giacimenti di metano sono tipicamente di miliardi di tonnellate e una fuoruscita di soli 10 milioni di tonnellate (10 megatoni) non sembrerebbe una possibilità così irrealistica.
Ma la modellistica di una esplosione di metano produrrebbe una geometria del tutto diversa da quella osservata.
Nel 1991 iniziarono le spedizioni del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna, protrattesi fino al 2007, sotto la guida di Luca Gasperini. Basandosi sulle anomalie di crescita degli alberi negli anni successivi al 1908, i nostri scienziati individuarono, all’interno di un centro di impatto abbastanza vasto, un lago che avrebbe potuto essere il prodotto di una frammento del meteorite sopravvissuto.

Il lago Cheko è situato a 8 chilometri a nord ovest dell’epicentro ed è un piccolo bacino di 500 metri di diametro (vedi foto). Sebbene, a prima vista, il lago non sembrerebbe avere le caratteristiche di un cratere, i ricercatori bolognesi provarono che era molto profondo, con una forma a cono, il che avrebbe potuto ricondurre la sua formazione ad un impatto meteorico.
La sola esistenza del lago Cheko, se fosse provato che si è formato nel 1908, farebbe propendere la bilancia verso la spiegazione meteorica, anche se sarebbe comunque troppo piccolo per spiegare l’evento e potrebbe ricondursi solo ad un frammento del grande meteorite originario. Ma di recente una troupe di ricercatore russi ha dimostrato che esso è molto più antico del 1908, studiandone i sedimenti.
Nel febbraio 2013 vi fu un’altra esplosione, nella zona degli Urali, prodotta dallo sciame meteorico Chelyabinsk, di circa 40 volte inferiore come potenza e che provocò 1200 feriti perché colpì un’area un poco più abitata. Anche a Chelyabinsk non vi sono crateri (o ve ne sono di molto piccoli) ma in questo caso si trattava di frammenti staccatasi dall’asteroide 1999 NC43 (che ha un diametro di 2 chilometri! Se fosse arrivato lui la vita sulla Terra si sarebbe estinta), esplosi a circa 50 km di altezza e la potenza della deflagrazione fu di molto inferiore.
L’unica spiegazione che potrebbe soddisfare tutte la strane caratteristiche dell’esplosione di Tunguska sembrerebbe essere quella di un evento non naturale.
Accantonando per questioni metodologiche l’esplosione di una nave aliena (spiegare un mistero con un mistero ancor più grande è inutile), la causa avrebbe potuto essere l’uomo?
Si tratta di considerazioni un po’ fantascientifiche ma molti hanno pensato che gli esperimenti che Nikola Tesla stava conducendo, proprio in quel periodo, nella sua Wardencliffe Tower a Long Island potrebbero essere correlati con l’evento di Tunguska.
La costruzione di Wardencliffe Tower fu ‘La follia di un milione di dollari’, come scrissero i giornali dell’epoca, che portò alla rovina il grande scienziato. Essa doveva servire proprio a trasmettere energia in grandi quantità attraverso la ionosfera per poi poterla recuperare in ogni punto della Terra, senza bisogno di fili.
Il Trasmettitore di Amplificazione, il primo nucleo del progetto, fu testato a Colorado Spring nel 1899. Tesla lo chiamava Trasformatore Risonante Autogenerativo, nome che cadde in disuso ma che in effetti spiega abbastanza bene cosa fosse. In pratica era una versione alternativa della Bobina Tesla in grado di raggiungere differenze di potenziale di milioni di Volt.
Finiti gli esperimenti a Colorado Sping, Tesla iniziò la costruzione della Wardencliffe Tower nel 1901 a Long Island, a 100 km da Manhattan.
Il suo primo finanziatore fu il banchiere James Warden che gli fornì gli 80 ettari di terreno necessari. Ma il suo finanziatore maggiore, al solito, fu il banchiere più potente del mondo, J.P. Morgan, che si impegnò subito con 150.000 dollari. Obiettivo: trasmettere energia con una grande potenza in ogni luogo del mondo, senza fili.
Ma i problemi cominciarono fin da subito. Gli investitori non capivano bene come si potesse far pagare agli utenti il costo dell’energia o, per usare le parole dello stesso Morgan, ‘dove si potesse mettere mettere il contatore’.
In un sistema senza fili il problema non era di facile risoluzione, anche perché Tesla, perso nel suo sogno millenario, preferiva ignorare la cosa.
A quel punto Morgan si ritirò (nel 1904) e la Wardencliffe Tower restò incompiuta. Tesla provò a coinvolgere altri finanziatori ma con scarso successo. Nel 1908 la Torre gli fu addirittura pignorata e lo scienziato cadde vittima di un esaurimento nervoso dal quale, di fatto, non si riprese mai più.
Il suo sogno si era infranto ma forse avrebbe potuto tentare l’ultimo, grandioso esperimento, proprio nel giugno del 1908, proprio pochi giorni prima che la sua creazione gli fosse portata via per debiti.
Si disse che volesse provocare una grande esplosione al Polo Nord, per non nuocere a nessuno, ma per far capire a tutti di cosa era capace il suo Trasmettitore di Amplificazione. Ma che sbagliò di alcune centinaia di chilometri e l’esplosione avvenne in Siberia.
in questo caso non ci sarebbe stato alcun cratere perché l’esplosione sarebbe avvenuta nella ionosfera, che veniva sollevata e lasciata ricadere da onde elettromagnetiche risonanti, confluenti in quella che fu poi chiamata risonanza di Schumann, l’onda stazionaria ionosferica a 8 hertz che avvolge il nostro pianeta. Una cosa non molto diversa da quello che può fare oggi il sistema americano HAARPA.
Tesla non avrebbe più avuto le disponibilità finanziare per riprendere i suoi studi né sarebbe più riuscito a produrre nuove invenzioni reali per tutto il resto della sua vita.
La ‘Follia da un milione di dollari’ di trasmettere, senza fili, grandi quantità di energia lo aveva definitivamente affossato come uomo e come scienziato, sia che fosse stato lui a provocare l’esplosione di Tunguska o meno.
Per maggiori particolari sul contesto in cui si svilupparono le invenzioni nei primi del 1900 si veda Maurizio Agostini, ‘La Terra canta in Do – L’arma segreta di Guglielmo Marconi’.
Per saperne di più sull’evento in sé si può vedere: Jack Stonelay. Tunguska. La cosa dallo spazio. 1978.
O anche: Nanni Riccobono. Tunguska: Un’avventura nella taiga siberiana, 2000;